Jihād

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Bandiera jihadista con la shahada musulmana: "Testimonio che non c'è divinità se non Allah e testimonio che Muhammad è il suo Messaggero"

Jihād (sostantivo maschile, ma usato in italiano perlopiù al femminile[1], pron. [dʒiˈhæːd], in arabo جهاد?, ǧihād che deriva dalla radice <"ǧ-h-d">, significa "sforzo [teso verso uno scopo]"[2]) è un termine nel linguaggio dell'Islam che connota un ampio spettro di significati dalla lotta interiore spirituale per raggiungere una perfetta fede fino alla guerra santa. Letteralmente significa "sforzo", individua lo slancio per raggiungere un dato obiettivo e può fare riferimento allo sforzo spirituale del singolo individuo per migliorare se stesso.[3] Nella dottrina islamica indica tanto lo sforzo di miglioramento del credente (il «jihad superiore»), soprattutto intellettuale, rivolto per esempio allo studio e alla comprensione dei testi sacri o del diritto, quanto la guerra condotta «per la causa di Dio», ossia per l'espansione dell'islam al di fuori dei confini del mondo musulmano (il «jihad inferiore»).[2]

Nel mondo occidentale però il termine jihad è stato prevalentemente interpretato come la guerra santa contro gli infedeli, lo strumento armato per la diffusione dell'Islam.[3]

Jihad inferiore

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L'interpretazione militante del jihād dello sceicco al-ʿAzzām[chi è?] descrive il "jihād offensivo" come una campagna che può essere dichiarata solo da un'autorità musulmana legittima e legale, tradizionalmente il califfo. Secondo questa interpretazione, nessuna autorità è richiesta per intraprendere il "jihād difensivo", poiché, secondo questa opinione, quando i musulmani vengono attaccati, diventa automaticamente obbligatorio per tutti i maschi musulmani in età militare, entro un certo raggio dall'attacco, prendere le difese.

Il primo vero Jihad fu dichiarato da Maometto. Il profeta, infatti, a seguito dell'Egira, si era ritrovato a capo della potente città di Yatrib e dovette affrontare una lunga e difficile guerra contro la sua città natia, Mecca. Lo scontro era percepito come inevitabile, un po' perché i meccani non potevano accettare una minaccia ai loro interessi economici legati ai pellegrinaggi alla Kaʿba, un po' perché il nuovo governo profondamente teocratico di Yatrib, ora chiamata Medina, rivendicava la stessa architettura religiosa come appartenente alla nuova religione e si proponeva di unificare la Penisola Arabica.

Il battesimo del sangue si ebbe a Badr, con una vittoria dei maomettiani, seguita dalla sconfitta di Uhud. Durante questa prima fase del conflitto meccano-medinese si delineò quello che fu il jihad, con il capo dell'Umma che prima ottenne un successo miracoloso, e poi altrettanto miracolosamente sfuggi alla morte. Successivamente Maometto definì lo "sforzo" anche dal punto di vista legale, sentenziando sul trattamento dei bottini, dei prigionieri, delle vedove e infinite altre questioni contenute sia nel Corano che negli aḥādīth.

Si ebbe poi la Battaglia del Fossato, seguita dal subito successivo trattato di Hudaybiyya, che rappresentò il totale e completo successo militare e diplomatico di Maometto, con il quale non solo respinse l'assedio meccano, ma col successivo accordo ottenne 10 anni di tregua e il diritto di fare il pellegrinaggio alla Kaʿba a partire sin dall'anno successivo.

In quella decade, tra importanti alleanze e piccole scaramucce, si tratteggiarono gli ultimi dettagli del jihad, che ormai costituiva una parte essenziale della legge. Questo finché finita la tregua Maometto mosse su Mecca armato di decine di migliaia di uomini. La città cadde senza opporre resistenza, e la Kaʿba fu spogliata di tutti i suoi idoli.

Il profeta morì solo due anni dopo, mentre si apprestava a invadere la Siria bizantina. Nella sua vita, oltre che come un legislatore e un politico, Maometto si profilò come un profeta combattente, capo carismatico ed esempio per tutta la comunità musulmana. Lasciò infatti ai suoi successori una penisola arabica unificata sotto un potente stato teocratico e centralizzato.[4]

Età contemporanea

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La questione di quale autorità musulmana, ammesso che ve ne sia, possa adempiere doveri come dichiarare il jihād è divenuta problematica da quando, il 3 marzo 1924, Kemal Atatürk abolì il califfato, che i sultani ottomani detenevano dal 1517. Non esiste oggi un'unica autorità politica costituita che governi la maggioranza del mondo musulmano. A causa della mancanza di organizzazione ecclesiastica all'interno della vasta maggioranza dei musulmani, qualsiasi aderente può autoproclamarsi ʿālim (esperto in materia di religione) e proclamare un jihād offensivo per mezzo di una fatwā. Il riconoscimento è a discrezione di colui che riceve il messaggio.

In assenza di un Califfo, i soli leader politici islamici di fatto sembrerebbero essere i governi dei moderni stati-nazione musulmani emersi dagli sconvolgimenti della prima parte del XX secolo. Comunque, a causa dell'alleanza e della sudditanza degli Stati-nazione secolari e pseudo-democratici o monarchici del Vicino e Medio Oriente alle superpotenze economiche e militari mondiali non islamiche, Stati Uniti, Europa e Russia,[senza fonte] i militanti islamisti reputano che gli Stati-nazione moderni emersi a metà XX secolo siano non-islamici e non rappresentativi di società islamiche. Il secolarismo è ampiamente percepito dagli islamisti militanti come rappresentativo di interessi politici americani ed europei ostili all'Islam.

Di conseguenza, movimenti islamisti (come al-Qāʿida e Hamās) si sono assunti il compito di proclamare il jihād, scavalcando l'autorità tanto degli Stati-nazione quanto degli esperti religiosi tradizionali. Analogamente, alcuni musulmani (specialmente i takfiristi) hanno dichiarato il jihād contro specifici governi che percepiscono come corrotti, oppressivi e anti-islamici.

Altri movimenti islamisti come Tabligh eddawa e i Fratelli musulmani parlano di jihād intesa come lotta per la reislamizzazione dei credenti tiepidi, ma con approcci molto diversi[5]. Se i Fratelli musulmani parlano di "‘reislamizzazione dall’alto’, impadronendosi in un modo o nell’altro del potere politico"[5], i Tabligh eddawa sono dei "missionari itineranti", che attraverso un approccio porta a porta cercano di islamizzare i non musulmani o reislamizzare coloro che si sono allontanati dalla fede attiva[5]; i due movimenti hanno in comune che la militanza politica non comporta necessariamente la lotta militare, anche se la radicalizzazione cui sono soggetti gli adepti può dare origine a fenomeni estremistici[5].

Fondamento del concetto

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Durante il periodo della rivelazione coranica, allorché Maometto si trovava a La Mecca, il jihād si riferiva essenzialmente alla lotta non violenta e personale, quindi a quello sforzo interiore necessario per la comprensione dei misteri divini. In seguito al trasferimento (Egira) da La Mecca a Medina nel 622 e alla fondazione di uno Stato islamico, il Corano (22:39) autorizzò il combattimento difensivo. Il Corano iniziò a incorporare la parola qitāl (combattimento o stato di guerra) per scopo difensivo:

«Combattete contro coloro che vi combattono, ma senza eccessi, ché Allah non ama coloro che eccedono.»

«Se vi assalgono uccideteli, se però cessano allora Allah è perdonatore.»

«Combatteteli finché non ci sia più persecuzione.»

«Quando poi siano trascorsi i mesi sacri, uccidete questi idolatri ovunque li incontriate, catturateli, assediateli e tendete loro agguati. Se poi si pentono, eseguono l'orazione e pagano la decima, lasciateli andare per la loro strada. Allah è perdonatore, misericordioso.»

«Combattete coloro che non credono in Allah e nell'Ultimo Giorno, che non vietano quello che Allah e il Suo Messaggero hanno vietato, e quelli, tra la gente della Scrittura, che non scelgono la religione della verità, finché non versino umilmente il tributo, e siano soggiogati.»

Interpretazione

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Tra i seguaci dei movimenti liberali interni all'Islam, l'interpretazione di questi versi è quello di una specifica "guerra in corso" e non una serie di precetti vincolanti per il fedele.

Questi musulmani "liberali" tendono a promuovere una comprensione dello jihād che rigetti l'identificazione del jihād con la lotta armata, scegliendo invece di porre in risalto principi di non violenza. Tali musulmani citano la figura coranica di Abele a sostegno della credenza per cui chi muore in conseguenza del rifiuto di usare violenza può ottenere perdono dei peccati.[senza fonte].

Nonostante le interpretazioni posteriori di queste porzioni del Corano, i passaggi in questione sottolineavano chiaramente, all'epoca, l'importanza dell'autodifesa nella comunità musulmana.

I musulmani spesso si rifanno a due significati di jihād citando un ḥadīth riportato dall'imām Bayhaqī e da al-Khatīb al-Baghdādī, benché il suo isnād (la catena di tradizioni che può ricondurre sino alle parole di Maometto) sia classificato come "debole":

  • "grande jihād (interiore)" – lo sforzo per autoemendarsi, contrastando le pulsioni passionali dell'io;
  • "piccolo jihād (esteriore)" – uno sforzo militare, cioè una guerra legale; da esercitarsi solo in caso di attacco personale.

Altri esempi di azioni che potrebbero essere considerati jihād (sulla base di hadīth con migliore isnād) includono:

  • parlare francamente contro un governante oppressivo ("Sunan" di Abū Dāwūd, libro 37, numero 4330);
  • andare in Ḥajj (pellegrinaggio a Mecca) – per le donne, questa è la migliore forma di jihād ("Sahīh" di Bukhārī, volume 2, libro 26, numero 595);
  • prendersi cura dei genitori anziani, come il profeta Maometto ordinò di fare a un giovane, invece di unirsi a una campagna militare (narrato da Bukhari, Muslim, Abu Dawud al-Sijistani, al-Tirmidhī e al-Nasā'ī).

Il significato più letterale di jihād è semplicemente "sforzo" e così è talvolta definito come "jihād interiore". Il "jihād interiore" si riferisce essenzialmente a tutti gli sforzi che un musulmano potrebbe affrontare aderendo coerentemente alla religione.

Per esempio, uno studio erudito dell'Islam è uno sforzo intellettuale cui qualcuno può fare riferimento come "jihād", benché non sia comune per uno studioso dell'islam di fare riferimento ai suoi studi come "impegnarsi in un jihād". Inoltre, esiste una dimensione del grande "jihād" che include motivi personali ineludibili, desideri, emozioni, e la tendenza a garantire il primato a piaceri e gratificazioni terrene.

La tradizione di identificare lo sforzo interiore come grande jihād (cioè, non militare) pare essere stato profondamente influenzato dal sufismo, un movimento mistico interno all'Islam antico e diversificato.

Sia per i musulmani, sia per i non musulmani gli attacchi dei militanti sotto l'egida del jihād possono essere percepiti come atti di terrorismo. Due gruppi islamisti si chiamano "jihād islamico": l'Egyptian Islamic Jihad e il Palestinian Islamic Jihad. I fiancheggiatori di questi gruppi percepiscono una giustificazione religiosa forte per un'interpretazione militante del termine jihād quale risposta adeguata all'occupazione israeliana della Cisgiordania (o "West Bank", all'inglese) e della Striscia di Gaza.

I musulmani credono che un posto in Paradiso (Ǧanna) sia assicurato a colui che muore come parte in lotta contro l'oppressione in qualità di shahīd (martire, cioè testimone). Descrizioni del Paradiso, nell'Islam come nel Cristianesimo, sono intrinsecamente problematiche. Considerazioni nei ḥadīth e nel Corano circa le ricompense spettanti allo shahīd — i settantadue "puri spiriti" conosciuti come urì, i fiumi che scorrono, l'abbondanza di freschi frutti — possono, a seconda delle prospettive, essere considerati realtà letterali o metafore per un'esperienza trascendente l'umana espressione.

Anche qualora la morte di un martire in un'operazione militare sia sicura, gli islamisti militanti considerano l'atto un martirio anziché un suicidio. Qualora musulmani non combattenti periscano in tali operazioni militari, i militanti considerano queste persone shahīd, anch'essi con un posto assicurato in paradiso. Stando a questa concezione, solo il nemico kāfir, o i miscredenti, ricevono danno dalle operazioni di martirio. La maggioranza degli eruditi islamici rigetta questa interpretazione. Il suicidio è un peccato nell'Islam. La dottrina maggioritaria degli studiosi discorda dall'approccio militante islamista in materia, e ritiene che le operazioni di martirio siano equivalenti al peccato di suicidio, che uccidere civili sia un peccato e che la Sunna (il costume, la "Retta Via") non permetta né l'uno né l'altro. Per questi studiosi, e per la vasta maggioranza dei musulmani, né le missioni suicide né gli attacchi ai civili sono considerati legittime conseguenze dello jihād.

Praticamente tutti i musulmani, tuttavia, ritengono che la legittima difesa dell'Islam comporti ricompense nell'Altra Vita. La base dello shahīd può essere rintracciata nelle parole di Maometto prima della battaglia di Badr, quando disse:

«Giuro in Colui che nelle mani trattiene l'anima di Maometto che Allah farà entrare in Paradiso chiunque oggi li [i nemici] combatterà e sarà ucciso soffrendo nella dura prova e ricercando il piacimento di Allah, procedendo e non retrocedendo.»

L'illiceità di operazioni di bombe-suicide è suggerita dal seguente ḥadīth:

«Chiunque deliberatamente si getti da una montagna uccidendosi, starà nel Fuoco (nell'Inferno islamico), eternamente cascandovi dentro e rimanendovi in perpetuo; e chiunque beva veleno per uccidersi lo porterà con sé e lo berrà nel Fuoco, dove rimarrà per sempre; e chiunque si uccida col ferro porterà con sé quell'arma e con essa si pugnalerà l'addome nel Fuoco dove rimarrà in eterno.»

Le organizzazioni militanti islamiste non costituiscono uno Stato autonomo o un'autorità di fatto; nondimeno esse considerano i bersagli economici come obiettivi militari, citando come prova le numerose incursioni carovaniere (vedi la Battaglia di Badr per una descrizione di tale incursione, e della guerra cui condusse). Resta il fatto, comunque, che la tradizione islamica più antica proibisce espressamente di attaccare donne, bambini, anziani ed edifici civili nel corso di una campagna militare. Il Corano, l'indiscutibile fonte di autorità nell'Islam, vieta l'uccisione di innocenti. Tuttavia, il divieto di uccidere non è assoluto, poiché viene posta una condizione:

«Chiunque uccida una persona – a meno che essa non stia per uccidere una persona o per creare disordine sulla Terra – sarà come se uccidesse l'intera umanità; e chiunque salvi una vita, sarà come se avrà salvato la vita di tutta l'umanità.»

In base a questo verso del Corano, se un essere umano non ha ucciso un'altra persona o creato conflitto o disordine nel mondo è da considerarsi innocente. Ucciderlo sarebbe l'equivalente di un massacro dell'intera razza umana, un delitto inconcepibilmente barbaro e un peccato enorme. Per una parte dei musulmani questo verso è decisamente abbastanza chiaro da togliere ogni dubbio o ambiguità sul rango morale degli attacchi contro civili.

Jihād difensivo

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La maggioranza dei musulmani considera la lotta armata contro l'occupazione straniera o l'oppressione da parte di un governo interno degne di jihād difensivo. In effetti, sembra che il Corano richieda la difesa militare della comunità islamica assediata.

In epoca coloniale le popolazioni musulmane insorsero contro le autorità coloniali sotto la bandiera dello jihād (gli esempi includono il Daghestan, la Cecenia, la rivolta indiana contro la Gran Bretagna (moti indiani del 1857, altrimenti chiamati dai britannici mutiny, cui peraltro parteciparono in maggioranza gli Hindu) e la guerra d'indipendenza algerina contro la Francia). In questo senso, lo jihād difensivo non è diverso dal diritto di resistenza armata contro l'occupazione, che è riconosciuto dall'ONU e dal diritto internazionale.

La tradizione islamica ritiene che quando i musulmani vengono attaccati diventi obbligatorio per tutti i musulmani difendersi dall'attacco, partecipare allo jihād. Quando l'Unione Sovietica invase l'Afghanistan nel 1979, l'eminente militante islamico ʿAbd Allāh Yūsuf al-ʿAzzām (che influenzò in modo determinante Ayman al-Zawāhirī e Usāma bin Lāden) emise una fatwā chiamata, Difesa delle terre islamiche, il primo dovere secondo la Legge[1], dichiarando che tanto la lotta afghana quanto quella palestinese erano jihād nelle quali l'azione militare contro i kuffār (miscredenti) sarebbe stata farḍ ʿayn (obbligo personale) per tutti i musulmani. L'editto fu appoggiato dal Gran Muftī dell'Arabia Saudita, ʿAbd al-ʿAzīz Bin Bazz. Nella fatwā, ʿAzzām spiegò:

«... gli ʿulamāʾ [studiosi religiosi] dei quattro madhāhib [le scuole di giurisprudenza religiosa] (malikiti, hanafiti, sciafeiti e hanbaliti), i Muhaddithūn (studiosi dei hadīth e i commentatori del Corano (Mufassirūn, da tafsīr, "esegesi") concordano che in tutte le epoche islamiche il jihād in queste condizioni diventa fard 'ayn (obbligo individuale) per i musulmani del luogo in cui gli infedeli hanno attaccato e per i musulmani più prossimi, per cui i fanciulli agiranno senza il permesso dei genitori, la moglie senza il permesso del marito e il debitore senza il permesso del creditore. E se i musulmani di questo luogo non sono in grado di espellere gli infedeli per mancanza di forze, perché sono distratti, perché sono indolenti o semplicemente non agiscono, allora il farḍ ʿayn si diffonde radialmente dai più vicini ai più prossimi. Se anch'essi si distraggono o, ancora, gli uomini scarseggiano, allora spetta marciare al popolo loro accanto, e al popolo successivo a quest'ultimo. Il processo continua finché diventi farḍ ʿayn per il mondo intero.»

Benché tali editti di eruditi contemporanei possano influenzare alcune comunità di credenti, il miliardo e duecento milioni di musulmani odierni è così diversificato che l'azione unificata riguardo ad istruzioni come questa è, in pratica, impossibile da conseguire.

Jihād offensivo

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Lo Jihād offensivo è l'intraprendere una guerra di aggressione e conquista contro i non-musulmani al fine di sottomettere questi e i loro territori al dominio islamico. Secondo numerose interpretazioni tra cui l'Encylopedia of the Orient, "il jihād offensivo, cioè l'aggressione, è pienamente ammesso dall'islam sunnita",[6] ma al contrario del jihād difensivo non vi è alcun obbligo di partecipazione da parte dei singoli fedeli musulmani, ma solo della comunità islamica nel suo insieme. Un teologo islamico considerato il padre del moderno movimento islamista, ʿAbd Allāh Yūsuf al-ʿAzzām, dichiarava nella fatwā "Difesa dei territori islamici: il primo obbligo secondo la fede":

«Lo jihād contro gli infedeli è di due tipi: il jihād offensivo (dove il nemico è attaccato sul suo territorio)... [e] il jihād difensivo. Questo consiste nell'espulsione degli infedeli dalla nostra terra, ed è fard 'ayn [obbligo religioso personale per ciascun musulmano], un dovere assolutamente obbligatorio...

Laddove gli infedeli non si uniscono per combattere i musulmani, combattere diventa farḍ kifāya [obbligo religioso per la società musulmana] col requisito minimo di arruolare fedeli a guardia delle frontiere, e di inviare un esercito almeno una volta all'anno a terrorizzare i nemici di Allah. È dovere dell'imam radunare e inviare un'unità dell'esercito nella Casa della guerra (Dār al-ḥarb [le terre non musulmane]) una o due volte all'anno. Inoltre, assisterlo è responsabilità della popolazione musulmana e se egli non invia un esercito commette peccato. – E gli ʿulamāʾ hanno ricordato che questo tipo di jihād serve a mantenere il pagamento della jizya [la tassa pro capite per i non musulmani]. Gli studiosi dei principi religiosi hanno detto inoltre: "Il jihād è daʿwah [chiamata all'Islam] con l'uso della forza, ed è obbligatorio prestarlo con ogni potenzialità disponibile, finché rimarranno soltanto musulmani o gente che si sottomette all'Islam.»

I musulmani che non aderiscono a questa interpretazione militante dello jihād mettono in dubbio la necessità e l'obbligazione dello jihād offensivo in epoca contemporanea. Essi argomentano che la tradizionale "Casa della guerra" riportata nella fatwa dello sceicco al-ʿAzzām:

«... si riferisce ai regimi ostili e agli imperi che circondavano le prime comunità islamiche. Secondo questa interpretazione, lo jihād offensivo era praticato solo al fine di preservare l'Islam dalla distruzione, ed è oggigiorno obsoleto.»

A sostegno di questo punto di vista, coloro che rigettano l'Islamismo militante tendono a opporsi all'affermazione secondo cui l'Islam nel suo complesso è oggetto di attacco ostile. Pur riconoscendo tanto le turbolenze politiche che le sofferenze, essi fanno notare che i pellegrini musulmani vanno e vengono a loro piacimento al pellegrinaggio annuale del Ḥajj, che la libertà religiosa dei musulmani di praticare la loro fede esiste in moltissimi paesi e che numerose comunità islamiche sono emerse in paesi come gli Stati Uniti e la Gran Bretagna. Essi propendono a porre in risalto, inoltre, tradizioni islamiche a sostegno della tolleranza per altri gruppi religiosi e sociali.

Invece l'interpretazione militante del jihād è propensa a suggerire una visione del mondo in cui forze ostili anti-islamiche impediscono oggigiorno all'Islam di realizzare il suo pieno potenziale per un'espansione globale pacifica — una visione del mondo in cui l'Islam sarà alla fine adottato dall'intera umanità se queste forze ostili verranno affrontate socialmente e militarmente.

Questo stesso conflitto tra due punti di vista può essere visto come "lotta", o jihād, per l'anima dell'Islam contemporaneo.

Aspetti correlati

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Brani dal Corano

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Il Corano usa il termine "jihād" solo quattro volte, nessuna delle quali fa riferimento alla lotta armata. Come tale, l'uso della parola jihād in riferimento alla guerra canonica islamica, fu un'invenzione posteriore dei musulmani. Tuttavia, il concetto di guerra legale islamica non fu a sua volta un'invenzione posteriore, e il Corano contiene passaggi che si riferiscono a specifici eventi storici e che possono chiarire la teoria e la pratica dalla lotta armata (qitāl) per i musulmani.

In questo senso è decisivo il passo 193 della Sūra II, nel quale compare la parola "fitna" (arabo "prova"), che in arabo ha un significato molto ampio, che include sia la ribellione che il vizio, nei confronti di Allah e delle sue creature.

Il termine viene solitamente tradotto con "persecuzione" poiché è preceduto da una chiara espressione "scacciateli da dove vi hanno scacciati":

«Uccideteli dovunque li incontriate, e scacciateli da dove vi hanno scacciati: la persecuzione è peggiore dell'omicidio. Ma non attaccateli vicino alla Santa Moschea, fino a che essi non vi abbiano aggredito. Se vi assalgono, uccideteli. Questa è la ricompensa dei miscredenti.»

«Combatteteli finché non ci sia più persecuzione (fitna, in arabo) e il culto sia [reso solo] ad Allah. Se desistono, non ci sia ostilità, a parte contro coloro che prevaricano.»

Dal testo coranico, troviamo la legge del contrappasso, l'invito a rispettare le tregue durante i mesi sacri, a desistere senza rappresaglia in caso di resa e al fatto che tutti gli imperativi sono preceduti o seguiti da un riferimento alla persecuzione. Ecco di seguito alcuni esempi:

«Mese sacro per mese sacro e per ogni cosa proibita un contrappasso. Aggredite coloro che vi aggrediscono. Temete Allah e sappiate che Allah è con coloro che respingono il male.»

«Se vogliono ingannarti, ti basti Allah. È Lui che ti ha soccorso con il Suo aiuto [e l'appoggio de]i credenti, instillando la solidarietà nei loro cuori. Se avessi speso tutto quello che c'è sulla terra, non avresti potuto unire i loro cuori; è Allah che ha destato la solidarietà tra loro. Allah è eccelso, saggio! Getta terrore nei nemici di Allah e nei vostri nemici. Ma se il nemico inclina alla pace, anche tu inclina alla pace, e abbi fede in Allah. Egli è Uno che ascolta e sa tutto.»

«E se veramente temi il tradimento da parte di un popolo, denunciane l'alleanza in tutta lealtà, ché veramente Allah non ama i traditori.»

«Questa è la grazia di Allah. Basta Allah ad essere onnisciente.»

«E se vi giunge una grazia da parte di Allah, dirà, come se non ci fosse amicizia alcuna tra voi: "Che peccato! Se fossi rimasto con loro avrei avuto un enorme guadagno". Perché non dovreste combattere per la causa di Dio e di coloro che, deboli, sono maltrattati e oppressi? – Uomini, donne e bambini che urlano :"O Signore, salvaci da questa città il cui popolo ci opprime; e innalza da te per noi qualcuno che ci proteggerà. E innalza da te per noi qualcuno che ci aiuterà".»

«Preparate, contro di loro, tutte le forze che potrete [raccogliere] e i cavalli addestrati, per terrorizzare il nemico di Allah e il vostro e altri ancora che voi non conoscete, ma che Allah conosce. Tutto quello che spenderete per la causa di Allah vi sarà restituito e non sarete danneggiati.»

«Se inclinano alla pace, inclina anche tu ad essa e riponi la tua fiducia in Allah. Egli è Colui Che tutto ascolta e conosce.»

«Come potrebbe esserci un patto tra Allah e il Suo Messaggero e i politeisti, ad eccezione di coloro con i quali stipulaste un accordo presso la Santa Moschea? Finché si comportano rettamente con voi, comportatevi rettamente verso di loro. Allah ama i timorati.»

«Svendono a vil prezzo i segni di Allah e frappongono ostacoli sul Suo sentiero. È veramente nefando quello che fanno.»

«Nei confronti dei credenti, non rispettano né la parentela, né i trattati: essi sono i trasgressori.»

«Se poi si pentono, eseguono l'orazione e pagano la decima, siano vostri fratelli nella religione. Così esponiamo chiaramente i Nostri segni per gente che comprende.»

«E se dopo il patto mancano ai loro giuramenti e vi attaccano [a causa del]la vostra religione, combattete i capi della miscredenza. Non ci sono giuramenti [validi] per loro: forse così desisteranno.»

«Non combatterete contro gente che ha violato i giuramenti e cercato di scacciare il Messaggero? Sono loro che vi hanno attaccato per primi. Li temerete? Allah ha ben più diritto di essere temuto, se siete credenti.»

«Combatteteli finché Allah li castighi per mano vostra, li copra di ignominia, vi dia la vittoria su di loro, guarisca i petti dei credenti ed espella la collera dai loro cuori. Allah accoglie il pentimento di chi Egli vuole. Allah è sapiente, saggio.»

«[E ricordate] quando Allah vi promise che una delle due schiere [sarebbe stata] in vostro potere; avreste voluto che fosse quella disarmata! Invece Allah voleva che si dimostrasse la verità [delle Sue parole] e [voleva] sbaragliare i miscredenti fino all'ultimo, per far trionfare la verità e annientare la menzogna a scapito degli empi.»

«E [ricordate] quando imploraste il soccorso del vostro Signore! Vi rispose: "Vi aiuterò con un migliaio di angeli a ondate successive".»

«E quando vi avvolse nel sonno come in un rifugio da parte Sua, fece scendere su di voi acqua dal cielo, per purificarvi e scacciare da voi la sozzura di Satana, rafforzare i vostri cuori e rinsaldare i vostri passi.»

«Assaggiate questo! I miscredenti avranno il castigo del Fuoco!»

«O voi che credete, quando incontrerete i miscredenti in ordine di battaglia non volgete loro le spalle.»

«Chi in quel giorno volgerà loro le spalle – eccetto il caso di stratagemma per [meglio] combattere o per raggiungere un altro gruppo – incorrerà nella collera di Allah e il suo rifugio sarà l'Inferno. Qual triste rifugio!»

«Non siete certo voi che li avete uccisi: è Allah che li ha uccisi. Quando tiravi non eri tu che tiravi, ma era Allah che tirava, per provare i credenti con bella prova. In verità Allah tutto ascolta e conosce.»

«quando combattevi (o Maometto). Per dare avvio alla battaglia, l'Inviato di Allah (pace e benedizioni su di lui), raccolse da terra una manciata di sabbia e la gettò contro i politeisti, maledicendoli.»

«Se è la vittoria che volevate, ebbene la vittoria vi è giunta! Se desisterete, sarà meglio per voi. Se invece ritornerete, Noi ritorneremo. Le vostre truppe, quand'anche fossero numerose, non potranno proteggervi. In verità Allah è con i credenti.»

«O voi che credete, obbedite ad Allah e al Suo Messaggero e non volgetegli le spalle, dopo che avete ascoltato.»

Trattamento dei prigionieri di guerra

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«L'Islam invero proibisce l'uccisione o il maltrattamento dei prigionieri.»

Come era pratica comune nel Medioevo, l'Islam in effetti considera i prigionieri di guerra un bottino. Quando Maometto e i suoi eserciti risultavano vittoriosi in battaglia, i prigionieri di guerra maschi o venivano restituiti alle tribù dietro riscatto, o scambiati con prigionieri di guerra musulmani, oppure venduti come schiavi, com'era costume dell'epoca. Anche le donne e i bambini catturati e fatti prigionieri correvano il rischio di cadere in schiavitù, benché la conversione all'Islam fosse una strada per ottenere la libertà.

Il trattamento di prigionieri di guerra ai tempi di Maometto in persona sembra fosse decisamente più umano di quello riservato dalle generazioni successive della dirigenza islamica. Dopo la battaglia di Badr, ai restanti furono date le seguenti opzioni: o di convertirsi all'Islam e guadagnare così la libertà, o di pagare il riscatto e guadagnare la libertà, o di insegnare a leggere e a scrivere a 10 musulmani e guadagnare così la libertà. Anche l'orientalista William Muir, non propriamente amichevole verso l'Islam, ha scritto quanto segue:

«A seguito delle decisioni di Maometto, i cittadini di Medina e coloro tra i rifugiati che possedevano case ricevettero i prigionieri e li trattarono con molta considerazione. "Siano benedetti gli uomini di Medina", disse uno dei prigionieri in epoca successiva, "ci hanno fatto cavalcare mentre essi camminavano, ci hanno dato pane lievitato quando ce n'era poco, mentre loro si accontentavano di datteri".»

Jihad bellico nello Sciismo

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Le concezioni di Jihad inferiore all'interno del Sunnismo e dello Sciismo variano considerevolmente. Se infatti il jihad è comune a tutti i musulmani, questa assume per gli sciiti un significato particolarmente importante, dovuto anche al ruolo che questa ha ricoperto all'interno della storia della "fazione" stessa. La Guerra santa propriamente detta costituirebbe persino un sesto pilastro nella concezione Duodecimana, sebbene inizialmente potesse essere proclamata solo dall'Imam occulto.[10]

Alì e Husayn

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La storia del jihad sciita inizia con ʿAlī, il primo Imam. Questo, durante la prima guerra civile islamica, il principio della divisione settaria dell'Islam, proclamò il jihad contro i seguaci del wali della Siria, Muʿāwiya. Egli si sarebbe infatti macchiato di "ipocrisia", di essersi convertito solo per interesse personale, e di aver iniziato ingiustamente la guerra contro il califfato di 'AIì.

Venne poi la Battaglia di Siffin. Nonostante lo schiacciante vantaggio delle truppe califfali, Alì decise di concedere una tregua ai nemici. Evento che permise alle truppe di Muʿāwiya di riorganizzarsi, il che costò numerose sconfitte alla parte di Alì, finché questo non morì assassinato. Dopo la morte del califfo si affermò nel mondo islamico la dinastia degli Omayyadi di Mu'awiya, e con loro il movimento ora detto Sunnita. Mentre gli Alidi si costituiranno successivamente come Sciiti.

Il successore di Alì, suo figlio Husayn fu invece considerato il Martire per eccellenza. Egli infatti morì trucidato insieme alla sua famiglia e al suo seguito durante la Battaglia di Karbala, mentre si apprestava a prendere in mano la fazione sciita, orfana del padre. L'evento è tutt'oggi ricordato ogni anno durante l'Ashura.

Contando anche le successive persecuzioni è scontato ricordare quale sentimento di vendetta potesse celarsi in tutti gli sciiti, i quali tutt'oggi invocano vendetta verso gli usurpatori umayyadi.

Nel settarismo sciita

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Dopo la morte del quarto Imam, Zayn al-'Abidin, la comunità si divise tra una maggioranza che seguì Muhammad al-Baqir e una minoranza che considerò il fratello Zayd ibn Ali il legittimo Imam. Dal secondo nacque lo Zaydismo, variante principale dello sciismo. Questa, sebbene più moderata sotto alcuni punti di vista, faceva del jihad una prassi. Ogni fedele doveva combattere armi alla mano l'usurpatore umayyade e solo chi si fosse distinto in tale ruolo avrebbe potuto guidare la comunità. Tale prassi era propria anche dello stesso Zayd, il quale morì durante una rivolta organizzata da lui stesso.[11]

Dopo la morte di Ja'far al-Sadiq, figlio e successore di al-Baqir, la comunità si divise in ulteriori due fazioni. La maggioranza seguì Musa al-Kazim, padre dello sciismo Duodecimano, la minoranza seguì invece il fratello Isma'il ibn Ja'far, fondatore dell'Ismailismo.

In particolare per i secondi, il jihad assume un ruolo proporzionato alla propensione che questi avevano per la guerra. Fazione eterodossa per eccellenza, gli ismailit furono un movimento profondamente Militante. I Carmati fondarono una sorta di repubblica piratesca in Bahrein, da dove riuscirono persino a depredare la pietra nera della Kaʿba. In Africa settentrionale, invece, scacciarono i Kharigiti fondando anche la sontuosa dinastia Fatimide, con epicentro in Egitto.

Tra i duodecimani

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La setta Duodecimana, maggioritaria nello Sciismo odierno, ha invece una concezione tutta particolare del jihad. Questa assumerebbe infatti il ruolo di sesto pilastro dell'islam.

Ogni sciita crede che l'ultimo Imam effettivamente tale non sia morto, ma che sia andato in Ghayba, in occultamento, e che ritornerà alla fine dei tempi per fondare un regno di pace, o, in alternativa, per prendere parte ai disordini che caratterizzeranno il Giorno del giudizio. Per i duodecimani questo è, come si intuisce dal nome, il dodicesimo: Muhammad al-Mahdi, il "messia". Costui, armi alla mano, riporterà il messaggio Coranico originario, per poi fondare uno stato mondiale prospero e pacifico, dove l'Umma possa vivere compatibilmente alla Shari'a. Il Madhi eliminerà l'ipocrisia e vendicherà le morti di ʿAlī e Husayn, punirà gli iniqui e porterà giustizia.

Il fatto particolare è che le schiere dell'Imam si costituiranno anche di ebrei, cristiani e zoroastriani, i quali poi verranno convinti ad abbracciare la profezia. Verrà inoltre la fine di ogni settarismo e l'unità dell'Umma.

Una dottrina Escatologica che si basa sul jihad, quindi. Jihad, c'è da dire, che però almeno inizialmente poteva essere proclamato solo e unicamente dall'Imam occulto, ma che però è stato usato più volte nel corso della storia recente, come durante le Guerre russo-persiane.

Tutt'oggi l'Iran fa del jihad e della vendetta della morte di Alì e Husayn un tema centrale della sua Propaganda, puntando altresì per la sua politica estera su numerose sigle Jihādiste, come Hezbollah e gli Huthi.

  1. ^ jihād, su treccani.it. URL consultato il 10 gennaio 2016.
    «Usato in italiano per lo più al femminile (per avvicinamento alla parola guerra)»
  2. ^ a b jihad, su treccani.it. URL consultato il 10 gennaio 2016.
  3. ^ a b guerra santa, su treccani.it. URL consultato il 10 gennaio 2016.
  4. ^ Carole Hillebrand. Islam, una nuova introduzione storica. Einaudi, 2016, EAN: 9788806229153.
  5. ^ a b c d L'Islam 'porta a porta'- la rete missionaria del Tabligh Eddawa, su gnosis.aisi.gov.it. URL consultato il 7 giu 2017 (archiviato dall'url originale il 30 agosto 2017).
  6. ^ LookLex Encyclopaedia, su i-cias.com.
  7. ^ Religioscope - Document - Azzam - Defence of the Muslims Lands - 3
  8. ^ Nell'Islàm infatti credere all'esistenza degli Angeli è parte integrante della aqîda (la dottrina).
  9. ^ Islam Online- News Section Archiviato il 2 marzo 2005 in Internet Archive.
  10. ^ Jihad sospeso fino al ritorno dell'Imam, su oasiscenter.eu.
  11. ^ I percorsi dell'Islam. Dall'esilio di Ismaele alla rivolta dei nostri giorni, Carlo Saccone, EMP, 2003, EAN: 9788825011623.
  • Michael Bonner, Jihad in Islamic Historyː Doctrines and Practice, Princeton, Princeton University Press, 2006.
  • Paolo Branca, L'islam delle origini e la guerra. Analisi del concetto di jihad nel Corano e nella Carta di Medina, in: Paolo Branca; Vermondo Brugnatelli (a cura di), in: Studi arabi e islamici in memoria di Matilde Gagliardi, Milano, IsMEO, 1995, pp. 43–61.
  • David Cook, Storia del jihad. Da Maometto ai giorni nostri, Torino, Einaudi, 2007.
  • Valeria Fiorani Piacentini, Islam. Logica della Fede e Logica delle Conflittualità, Milano, Franco Angeli, 2003
  • Carole Hillebrand. Islam, una nuova introduzione storica. Einaudi, 2016, EAN: 9788806229153
  • Gilles Kepel, Le Prophète et Pharaon, Parigi, Ed. du Seuil, 1984 (trad. it. Il Profeta e il Faraone, Roma, Laterza, 2006).
  • Majid Khadduri, War and Peace in the Law of Islam, Baltimore, Johns Hopkins University Press, 1958.* Rudolph Peters, Islam and Colonialism: The Doctrine of Jihad in Modern History, “Religion and Society”, Mouton, The Hague 1979.
  • Nicola Melis, Trattato sulla guerra. Il Kitab al-gihad di Molla Hüsrev, Cagliari, Aipsa, 2002.
  • Nicola Melis, “A Hanafi treatise on rebellion and gihad in the Ottoman age (XVII c.)”, in Eurasian Studies, Istituto per l'Oriente/Newnham College, Roma-Cambridge, Volume II; Number 2 (December 2003), pp. 215–226.
  • Nicola Melis, “Il concetto di gihad”, in P. Manduchi (a cura di), Dalla penna al mouse. Gli strumenti di diffusione del concetto di gihad, Milano, Franco Angeli, 2006, pp. 23–54.
  • Alfred Morabia, Le gihad dans l'Islam médiéval, Parigi, Albin Michel, 1993.
  • Peter Partner, God of Battles. Holy Wars of Christianity and Islam (trad. it.: Il Dio degli eserciti. Islam e Cristianesimo: le guerre sante, Torino, Einaudi, 1997).
  • Carlo Saccone, I percorsi dell'Islam. Dall'esilio di Ismaele alla rivolta dei nostri giorni, EMP, 2003, EAN: 9788825011623
  • Biancamaria Scarcia Amoretti, Tolleranza e guerra santa nell'Islam, “Scuola aperta”, Firenze, Sansoni, 1974
  • Giorgio Vercellin, "Jihad: l'Islam e la guerra", Firenze, Giunti, 2001 (già alleg. a Storia e dossier, n. 125, mar. 1998)

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