Indice
Khinjaria
Khinjaria | |
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Stato di conservazione | |
Fossile | |
Classificazione scientifica | |
Dominio | Eukaryota |
Regno | Animalia |
Phylum | Chordata |
Classe | Reptilia |
Ordine | Squamata |
Clade | †Mosasauria |
Superfamiglia | †Mosasauroidea |
Famiglia | †Mosasauridae |
Clade | †Russellosaurina |
Sottofamiglia | †Plioplatecarpinae |
Tribù | †Selmasaurini |
Genere | †Khinjaria Longrich et al., 2024 |
Nomenclatura binomiale | |
†Khinjaria acuta Longrich et al., 2024 |
Khinjaria (il cui nome dall'arabo significa "pugnale") è un genere estinto di mosasauro plioplatecarpine vissuto nel Cretaceo superiore (Maastrichtiano) in quello che oggi è il bacino di Ouled Abdoun, in Marocco. Il genere contiene una singola specie, la specie tipo K. acuta, nota per un cranio e una vertebre parziali. Khinjaria era probabilmente uno dei superpredatori del suo ecosistema, date le sue dimensioni corporee, i denti a lama e l'insolita morfologia del cranio gli avrebbero permesso di attaccare grandi prede.
Scoperta e denominazione
[modifica | modifica wikitesto]L'esemplare olotipo di Khinjaria, catalogato come MHNM .KHG.521, venne recuperato nei sedimenti del bacino di Oulad Abdoun (Lower Couche III, località Sidi Chennane) nella provincia di Khouribga, Marocco. L'esemplare è costituito da un cranio parziale (con una premascella parziale, entrambi gli ossi mascellari, i prefrontali, il frontale e il parietale, il postorbitofrontale destro, un osso squamoso destro parziale e un ramo mandibolare) e una vertebra associata, forse proveniente dalla regione del dorso.[1]
Nel 2024, Longrich et al. descrissero Khinjaria acuta come un nuovo genere e specie di mosasauro plioplatecarpino basato su questi resti fossili. Il nome generico, Khinjaria, deriva da una parola araba per "pugnale". Il nome specifico, acuta, deriva invece dal latino e significa "acuto". Il nome binomiale completo fa riferimento alla morfologia dei denti di Khinjaria.[1]
Descrizione
[modifica | modifica wikitesto]Si stima che la lunghezza corporea di Khinjaria si aggirasse intorno agli 8 metri. Le sue dimensioni, oltre ai suoi denti simili a zanne, gli avrebbero permesso di cacciare grandi prede. Ogni osso mascellare conteneva dieci o undici denti, rispetto agli undici dello strettamente imparentato Goronyosaurus, dodici di Gavialimimus e undici o dodici di Selmasaurus johnsoni. Come Goronyosaurus, Khinjaria presentava dodici denti nel dentario (osso della mandibola). Questi denti sono proporzionalmente grandi, come in Selmasaurus johnsoni, in contrasto con i piccoli denti di altri taxa plioplatecarpini come Gavialimimus. In generale, il rostro è insolitamente corto e la dimensione dell'orbita è ridotta, mentre la mascella e il dentario sono robusti e profondi. Il cranio è molto acinetico, nel senso che le singole ossa che lo compongono non si muovono l'una rispetto all'altra. Ciò avrebbe reso le fauci più robuste permettendogli di infliggere morsi più potenti.[1]
Classificazione
[modifica | modifica wikitesto]Nelle loro analisi filogenetiche, Longrich et al. (2024) rinvennero Khinjaria all'interno di un clade di mosasauridi plioplatecarpini africani, come taxon gemello di Goronyosaurus. Chiamarono questo clade, contenente anche Gavialimimus, Goronyosaurus e Selmasaurus, i Selmasaurini.[1] Un clade simile è stato recuperato da Strong et al. (2020) nella loro descrizione di Gavialimimus.[2] I risultati delle analisi di Longrich et al. sono mostrati nel cladogramma sottostante:
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Note
[modifica | modifica wikitesto]- ^ a b c d Nicholas R. Longrich, Michael J. Polcyn, Nour-Eddine Jalil, Xabier Pereda-Suberbiola e Nathalie Bardet, A bizarre new plioplatecarpine mosasaurid from the Maastrichtian of Morocco, in Cretaceous Research, 1º Marzo 2024, pp. 105870.
- ^ (EN) Catherine R. C. Strong, Michael W. Caldwell, Takuya Konishi e Alessandro Palci, A new species of longirostrine plioplatecarpine mosasaur (Squamata: Mosasauridae) from the Late Cretaceous of Morocco, with a re-evaluation of the problematic taxon 'Platecarpus' ptychodon, in Journal of Systematic Palaeontology, vol. 18, n. 21, 1º Novembre 2020, pp. 1769–1804.