Storia della pittura a Verona

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La storia della pittura a Verona va dai primi esempi superstiti risalenti all'alto medioevo alla contemporaneità.

Le origini altomedievali

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Sant'Agostino con i discepoli, miniatura del codice di Egino, fine del VIII secolo

A Verona sono sopravvissuti fino a noi ben pochi esempi di pittura dell'alto medioevo. È certo che almeno dagli inizi del VI secolo, ma probabilmente già dal secolo precedente, in città fosse attivo un importante scriptorium in cui lavoravano amanuensi affiancati probabilmente da miniatori. E proprio qui che negli ultimi anni del VIII secolo viene prodotto quello che è considerato uno dei più significativi e antichi esempi di arte alto medievale veronese: quattro miniature incluse nel cosiddetto codice di Egino, originariamente dono del vescovo Egino di Verona alla cattedrale di Santa Maria Matricolare, prima del suo ritiro nell'Isola di Reichenau nel 799, ma oggi conservato Biblioteca di Stato di Berlino. In esse sono rappresentati a tutta pagina i padri della Chiesa Agostino d'Ippona nell'atto di insegnare, Leone Magno benedicente, Ambrogio da Milano e Gregorio Magno entrambi impegnati nello scrivere; i quattro, inoltre, sono raffigurati tutti con l'aureola, seduti sui rispettivi troni e accompagnati dal proprio seguito di chierici. I colori maggiormente utilizzati sono l'oro e l'argento, ma sono presenti anche tonalità di marrone, rosso, verde e blu.[1][2][3] È stato osservato di come il loro stile richiami i modelli tardoantichi della miniatura carolingia dimostrando così la presenza di influssi d'oltralpe nel panorama artistico veronese dell'epoca. Il resto del codice è scritto da più di un amanuense in minuscola carolina.[1][4]

Particolare nel contesto artistico del tempo è un tessuto liturgico, di cui sono sopravvissuti tre porzioni, noto come velo di classe in cui sono ricamati i busti dei primi tredici vescovi veronesi associati al proprio nome. Fu realizzato per volere del vescovo Annone di Verona nel VIII secolo per adornare la tomba dei santi Fermo e Rustico.[4][5]

Iconografia rateriana, copia commissionata da Scipione Maffei.
Primo strato dei affreschi del sacello dei Santi Nazaro e Celso, museo degli affreschi Giovanni Battista Cavalcaselle

Nei decenni successivi Verona, come molte città dell'Italia settentrionale, fu vittima di incursioni degli ungari e questo ne compromise lo sviluppo artistico fino a quando queste terminarono nel 955 a seguito della battaglia di Lechfeld. Un probabile esempio della ripresa successiva si trova a Bardolino, a pochi chilometri dalla città di Verona, dove la chiesa di San Zeno vanta pareti interne con pregevoli affreschi.[4]

Della metà del X secolo è anche la più antica rappresentazione grafica di Verona, la cosiddetta iconografia rateriana, originariamente parte di un codice appartenuto al vescovo Raterio. Esempio di tarda arte carolingia, probabilmente venne realizzata per celebrare la rinascita città dopo gli anni oscuri delle devastazioni degli Ungari. Di questo disegno oggi possediamo solamente una copia fedele fatta eseguire nel 1739 dall'erudito veronese Scipione Maffei.[1][6]

Nel 1889, a seguito di uno stacco di affreschi del XII secolo, venne alla luce una serie di pitture più antiche che decoravano le pareti del sacello rupestre dei santi Nazaro e Celso nelle immediate vicinanze dell'omonima chiesa a Veronetta. La scoperta venne da subito documentata da Carlo Cipolla che gli datò al 996 grazie ad una iscrizione[7] oggi praticamente non più esistete. In questi affreschi, anch'essi staccati e conservati al museo degli affreschi Giovanni Battista Cavalcaselle, gli storici dell'arte hanno riscontrato il lavoro di più autori il cui stile ricorda la miniatura ottoniana del X secolo. In particolare, gli occhi dei santi, spalancati e con la pupilla isolata, sembrano simili a quelli raffigurati all'interno del coevo Evangeliario di Ottone III e del Codex Egberti ad ulteriore testimonianza della stretta connessione tra Verona e la scuola dell'Abbazia di Reichenau.[8][9][10][11]

Il romanico dal XI a XII secolo

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A partire dall'XI secolo sembra che l'arte veronese, pur rimanendo legata ai modelli d'oltralpe, sia arricchita da ulteriori e variegate influenze muovendosi verso la fase nota come "romanica". È il caso ad esempio degli affreschi più antichi superstiti, seppur in forma frammentaria, nella Pieve di Sant'Andrea a Sommacampagna in cui tuttavia i caratteri principali rimandano ancora all'area nordica con lo storico dell'arte Wart Arslan che ha riscontrato alcune similitudini con le miniature prodotte nella celebre Abbazia di San Gallo. Di poco più tardo dovrebbe essere la decorazione dell'arco trionfale dell'abside occidentale della pieve di San Giorgio di Valpolicella che può essere considerata come il ponte tra l'arte germanica e l'emersione di una corrente veronese sempre più definita e autonoma.[12][13] Sempre fuori Verona sono assai degni di nota anche gli affreschi che decorano la chiesa di San Severo a Bardolino.[14]

Crocifissione, chiesa di San Pietro Incarnario

Tornando in città, della seconda metà dell'XI secolo sono i pochi frammenti del più antico ciclo di affreschi della fabbrica benedettina della chiesa di San Fermo Maggiore iniziata nel 1065 e poi fortemente manomessa dall'avvento dei francescani circa due secoli dopo. I più interessanti appartengono alla calotta dell'absidiola settentrionale in cui al centro vi è raffigurato un Cristo giudice con ai fianchi l'arcangelo Gabriele e (probabilmente) l'arcangelo Michele. È stato osservato che «la tipologia dei visi e l'eleganza delle forme» siano debitrici dell'arte ottoniana e che la «qualità pittorica doveva essere di alto livello e l'esecuzione molto raffinata».[15]

Particolare del secondo strato di affreschi del sacello dei santi Nazaro e Celso

Molto interesse nella critica ha suscita una Crocifissione collocata su un pilastro nella cripta della chiesa di San Pietro Incarnario poco fuori dal centro di Verona. Sebbene la maggioranza degli storici abbia proposto una collocazione nel XI secolo, non vi è unanimità in quanto altri la pongono nel secolo precedente o in quello successivo. Nemmeno l'analisi del suo stile non ha riscontrato problematiche con parte della critica che ha visto influssi provenienti dell'arte bizantina e parte che invece la considera di stile pienamente occidentale. In ogni caso, questo affresco è considerato, per la sua originale poetica, come uno dei primi esempi di «arte romanica veronese» e quindi testimone di una scuola locale probabilmente già sufficientemente consolidata. Tuttavia Arslan questo affresco rappresenta anche un esempio della «tenace sopravvivenza dei mezzi figurativi e iconografici dell'epoca carolingia».[16][17] A supporto di questa tesi, lo storico padovano ne analizza la sua fattura, non certo eccelsa e considerata addirittura «grossolana», che però colpisce per il «Cristo crocifisso, ancora vico, con gli occhi sbarrati, i piedi inchiodati separatamente e con la croce piantata sul calvario con ancora visibile il cranio di Adamo. Accanto la Vergine e san Giovanni, al di sopra i due busti dei santi arcangeli Michele e Gabriele».[18][19]

Della fine del secolo successivo, il XII secolo, è il secondo strato di affreschi del sacello dei santi Nazaro e Celso considerato un «testo cruciale e fondamentale della più tarda pittura romanica veronese» per la sua maturità testimoniata dai colori vivaci e dalle sicure pennellate che conferiscono alle figure spessori e finiture non banali.[20] Altri esempi di pittura romanica nel veronese sono il ciclo Apocalisse e Leggenda della croce a san Severo di Bardolino e Storie di sant'Andrea nella pieve di Sommacampagna con quest'ultima particolarmente raffinata nella sua fattura. Una santa Margherita sopravvissuta nella Chiesa dei Santi Apostoli nel centro storico di Verona, di qualità non eccelsa, e le decorazioni poste tra le tre arcate del pontile della basilica di San Zeno, sono ulteriori «antiche espressioni del romanico veronese».[21]

Il Duecento: verso il gotico

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Sebbene non sempre di grande qualità, Verona conserva numerose testimonianze pittoriche risalenti al Duecento. Queste testimonianze consistono quasi esclusivamente in lacerti di pitture murali, sia interne che esterne, che dimostrano una intensa volontà decorativa nei complessi chiesastici e negli edifici residenziali. Gli stili sono vari, frutto di diverse influenze pittoriche, il che rende difficile ricostruire personalità e correnti artistiche specifiche. Il legame di Verona con la Germania, dovuto alla presenza di Ezzelino III da Romano, signore della Marca Trevigiana e fedele dell'imperatore Federico II, è evidente anche nella pittura. Caratteristiche di questo periodo sono la vivacità narrativa, l'attenzione ai dettagli delle vesti, una certa plasticità e, al contempo, una rigidezza nelle figure tendenzialmente allungate. A metà del secolo, il passaggio da libero comune alla signoria degli Scaligeri rappresentò un periodo di trasformazione politica e sociale, che coincise con il passaggio dal romanico al gotico.[22]

Pontile-tramezzo della basilica di San Zeno con lacerti dell'inizio del XIII secolo

Nel catino absidale della cappella del transetto di destra della chiesa superiore di san Fermo Maggiore vi erano degli affreschi, oggi staccati, di buona fattura collocabili agli inizi del XIII secolo quando la chiesa era officiata dai benedettini raffiguranti una Verigine con il bambino tra due santi; in un lungo cartiglio vi è scritto "BEATI QUI AUDIUNT VERBUM DET ET CUSTODIUNT ILLUD". Questo è forse il più esplicito esempio di bizantinismo occidentalizzato visibile a Verona.[23][24] Circa degli stessi anni dovrebbe essere un graffito originariamente dipinto su una serie di otto lastre raffigurante un Giudizio universale sul timpano della facciata della basilica di San Zeno. Opera giudicata assai originale per il panorama veronese, a metà via tra scultura e pittura, Simeoni e Da Lisca lo attribuirono al Brioloto anche per la sua iconografia sicuramente occidentale.[25][26] Sempre a San Zeno, lacerti presenti sul pontile-tramezzo potrebbero collocarsi negli stessi anni, come alcune immagini votive che decorano i pilastri della cripta. In particolare una maestosa Maddonna col Bambino dal sapore bizantino e un analogo soggetto dipinto all'esterno in una nicchia sul fianco meridionale che versa però in cattive condizioni.[27][28][29]

Alcuni esempi coevi sono presenti anche in edifici abitativi. Restauri effettuati nel 1997 hanno messo in luce alcune decorazioni presenti nelle antiche abitazioni dei canonici della cattedrale di Verona che fanno pensare che originariamente gli spazi affrescati fossero ben maggiori di quelli superstiti. Nel più interessante dei brani ancora oggi visibili è raffigurata l'allegoria di due vizi capitali, acidia e lussuria, in cui vengono trafitte e calpestate da due figure femminili prive di testa. Si può supporre che fosse parte di un ciclo ben più complesso in cui erano raffigurati Vizi e Virtù, un tema non nuovo al medioevo.[30] Nella vicina biblioteca capitolare sono statai rivenuti ulteriori affreschi, ma di mano diversa, origiarimanete di un ciclo episodi dell'antico Testamento.[31] Sulle pareti delle scale di sinistra che scendono nella cripta della chiesa di Santo Stefano si trovano diversi affreschi ascrivibile alla metà del duecento oramai difficilmente leggibili.[32][33][34]

La scena del corteo dipinta all'interno della Torre abbaziale di San Zeno

Nella seconda metà del duecento riprese l'attività decorativa delle pareti della Basilica di San Zeno; di questi anni è il grande San Cristoforo che indossa una ricca veste con mantello sulla parete destra e alcuni affreschi presenti nella sagrestia.[35][36] Ma l'affresco giudicato il più interessante nel panorama veronese del tempo si trova invece in una delle sale interne della Torre abbaziale di San Zeno attigua alla basilica. Qui, davanti ad una rappresentazione di una Ruota della fortuna oramai in gran parte persa, vi è una grande scena raffigurante al centro un corteo di vari popoli che si avviano a rendere omaggio a un sovrano in trono, con una città turrita sullo sfondo, coronato in alto da un piccolo fregio caratterizzato da un ornato floreale ravvivato da mascheroni mostruosi e da figure fantastiche di animali e combattenti, infine in basso sono raffigurate delle scene di caccia.[37] Si tratta di un dipinto piuttosto insolito a causa degli appariscenti copricapi che rendono distinguibili i diversi popoli, per le difficoltà di interpretazione iconografiche e per la singolare tecnica pittorica utilizzata. Questo dipinto potrebbe essere un'opera romanica delle maestranze altoatesine della Val Venosta, tanto che sono presenti alcune somiglianze con un dipinto situato nell'abside della chiesa di San Giovanni a Müstair, e potrebbe essere databile agli ultimi due decenni del XII secolo.[38][39] Arslan vide nell'affresco delle similitudini con due codici miniati oggi conservati presso la Biblioteca apostolica vaticana: la Bibbia A. IV 74 e il Vaticano latino 39 contenente il testo del Nuovo Testamento.[40]

Crocifissione proveniente dall'ex Convento di san Giovanni Evangelista della Beverara e oggi al museo di Castelvecchio

Al museo di Castelvecchio sono custoditi numerosi affreschi della fine del duecento staccati nel 1892 dall'ex Convento di san Giovanni Evangelista della Beverara (oggi Istituto Don Bosco) tra cui una Madonna allattante, una Crocifissione e una Pietà; sia per la vicinanza geografica che per lo stile, è stato proposto come autore lo stesso frescante che lavorò ad una nuova fase di decorazione a San Zeno dove vennero dipinti un Battesimo di Cristo e una Ressurezione di Lazzaro. Entrambi i dipinti appaiano inseriti in una cornice, la cui parte superiore è composta da un fregio a foglie; la composizione è semplice, senza profondità.[41]

Ultima cena presso la basilica di San Zeno

Il secolo si chiude con numerose pitture votive, se ne trovano ad esempio nella cripta di chiesa di san Procolo o nella parete destra della chiesa di San Giovanni in Valle, in cui sono rappresentante soprattutto Madonne con bambino spesso accompagnate dalla figura dell'offerente, un tema che diverrà ricorrente della pittura veronese.[42] Da menzionare, infine, un frescante di grande qualità autore a San Zeno di una Madonna col Bambino e un'Ultima cena (una delle più antiche raffigurazioni di questo genere) entrambe collocate sulla parete di sinistra.[43] Oramai il panorama veronese è pronto per accogliere a pieno titolo il gotico e al formarsi di un proprio stile plasmato dalle molteplici correnti che giungevani nella dinamica città scaligera.[44]

Il Trecento, l'arrivo del giottismo

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Resti degli affreschi di Maestro Cicogna presso la chiesa di San Martino a Corrubbio

Gli inizi del XIV secolo furono anni felici per Verona che con Alboino e Cangrande I della Scala, signori illuminati e rispettati, raggiunse una notevole ricchezza. Il fortunato periodo politico ebbe riflessi anche sulla scena pittorica cittadina che divenne una tra le più importanti dell'Italia settentrionale, almeno per quanto riguarda la quantità di affreschi realizzati. Numerosi furono i pittori impegnati a Verona e provincia nella decorazione di chiese e edifici civile. Iniziano anche a conoscersi i nomi di questi frescanti, come è il caso di tale maestro Cicogna che firma e data (ANNO DOMINI MCCC) un suo dipinto sulla parete di sinistra della chiesa di San Martino a Corrubbio in Valpolicella e a cui sono state attribuite numerose altre opere sparse per il territorio veronese.[45][46] Un certo Giovanni, invece, firmò e datò al 1305[47] una Sant'Anna dipinta su di un pilastro della Chiesa di San Zeno a Cerea. Oltre a questi maestri si ritiene che complessivamente a quel tempo fossero attivi non meno di una trentina di pittori a Verona.[48] È stato osservato di come questi primi frescanti siano ancora "legati alla tradizione del Duecento, con influenze stilistiche nordiche e bizantine ormai obsolete di seconda e terza mano. Tuttavia, dimostrano spesso di possedere capacità e tecniche di altissimo livello".[45]

Affreschi del Maestro del Redentore, presbiterio della chiesa di San Fermo Maggiore

Lo stile "obsoleto" del panorama veronese ebbe una profonda scossa quando anche qui, come nel resto d'Italia, giunse la rivoluzione di Giotto. Non è certo se Giotto stesso lavorò in città, nel cinquecento Giorgio Vasari raccontò che intorno al 1316 il pittore toscano "andò a Verona, dove a messer Cane fece nel suo palazzo alcune pitture e particolarmente il ritratto di quel Signore; e ne’ frati di S. Francesco una tavola".[49] Tuttavia, nessuna sua opera veronese è giunta fino a noi e non vi sono altri prove che possano testimoniare un suo soggiorno alla corte scaligera, quindi la sua effettiva presenza è un tema ancora dibattuto. Il primo autore veronese il cui stile appare evidentemente influenzato dal giottismo fu il cosiddetto "Maestro del Redentore", molto probabilmente un aiuto di Giotto a Padova, che lavorò alla fabbrica della chiesa di San Fermo Maggiore. Nel 1907 Gerola lesse la data del 1314.[50] Nella stessa chiesa, da poco passata ai francescani, un ordine molto vicino a Giotto tramite numerose e celebri commesse, sono presenti numerosi altri esempi ascrivibili al primo giottismo veronese.[51]

Da qui in avanti la lezione di Giotto diverrà la corrente le prevalente a Verona, senza tuttavia giungere a elevati risultati qualitativi. I pittori veronesi giotteschi non riusciranno, infatti, mai a raggiungere il maestro per quanto riguarda la spazialità e l'organizzazione di grandi cicli narrativi; anzi, la loro produzione è stata criticata per essere monotona, caratterizzata prevalentemente da riquadri votivi a sé stanti, "sequenze stucchevoli di santi presenti frontalmente evadendo quasi sistematicamente l'irruzione di storie e di azione che Giotto aveva imposto. Nasce un linguaggio sterile, stereotipato che coinvolgerà il panorama veronese fino a metà del trecento".[46]

San Giorgio e il drago fra due santi vescovi e il committente, attribuito al cosiddetto secondo maestro di San Zeno.

Tutto ciò è ben visibile sulle pareti laterali della basilica di San Zeno dove sono ancora visibili numerose testimonianze del trecento pittorico veronese ad opera di quelli che la critica attribuisce ai cosiddetti primo e secondo maestro di San Zeno secondo la proposta della storica Evelyn Sandberg Vavalà. È necessario precisare che tutti gli storici dell'arte concordano che non si tratti di due unici frescanti, ma che con questi nomi si voglia intendere due diversi gruppi di pittori affini per stile, epoca e tecnica che lavorarono in questa basilica e in altri luoghi cittadini. Per la precisione, con "primo maestro" si attribuiscono convenzionalmente gli affreschi realizzati intorno al secondo quarto del XIV secolo e accreditati per essere stati i primi ad aver diffuso la scuola giottesca a Verona ma anche ad aver contribuito all'"inaugurazione della vera scuola locale". Invece, con "secondo maestro", quasi sicuramente un suo allievo, si intendono i frescanti che realizzarono nella seconda metà del XIV secolo numerosi dipinti in molte chiese di Verona, tra cui una serie di 24 a carattere votivo nella sola San Zeno, e che si caratterizzano per una pittura più evoluta rispetto al primo maestro e con forti richiami alla cultura pittorica lombarda.[52][53]

Polittico della Trinità, Turone di Maxio, museo di Castelvecchio

Il panorama artistico veronese della seconda metà del trecento è dominato da due importati figure: quella di Turone di Maxio e, soprattutto, quella di Altichiero. La presenza di Turone a Verona è documentata dal 1356 e la sua unica opera certa è il celebre polittico della Trinità, realizzato nel 1360 per la Chiesa della Santissima Trinità in Monte Oliveto e oggi esposto nelle collezioni del museo di Castelvecchio. È il primo caso a Verona di un'opera dalla datazione certa firmata da un personaggio storico.[54][55] Numerose altre opere sono state attribuite a Turone, tra cui una Vergine con Bambino e un San Giovanni Battista con due donatori nella chiesa di Santa Maria della Scala, un Crocifisso (datato 1363) inserito nella lunetta del portale laterale della chiesa di San Fermo, una Crocifissione sempre a san Fermo nella lunetta del portale principale.[55][56], un Giudizio Universale sulla parete destra del presbiterio della basilica di Santa Anastasia sebbene per quest'ultimo i dubbi sono molti e spesso si parla invece in un più generico "maestro del Giudizio Universale".[57][58] Vavalà ha proposto che Turone possa essere stato anche l'autore delle circa 300 miniature che compongono diciassette corali conservati presso la biblioteca capitolare di Verona, tre di quali datati al 1368.[59]

Parte di Adorazione per la cappella Cavalli della basilica di Santa Anastasia, altichiero da Zevio

Allievo di Turone, Altichiero da Zevio è unanimemente considerato il massimo pittore veronese del trecento. Scarse sono le notizie biografiche su di lui; Vasari lo presentò già maturo e tenuto in alta considerazione nel mondo dell'arte, e lo definì «famigliarissimo con i signori della Scala». E proprio per gli scaligeri, stando al racconto di Vasari, dipinse nel 1362 per il palazzo del Podestà una Guerra di Gerusalemme secondo Giuseppe Flavio, due Trionfi e una serie di affreschi con effigi di imperatori romani, l'esempio più antico attestato nel Medioevo, che trovavano spazio negli ampi sottarchi ed erano probabilmente volti a celebrare la signoria. Questi sono gli unici sopravvissuti dell'intero complesso pittorico e sono stati strappati, restaurati e collocati al museo degli affreschi Giovanni Battista Cavalcaselle.[60][61] L'unica opera certa di Altichiero sopravvissuta per intero a Verona è però un'Adorazione per la cappella Cavalli della basilica di Santa Anastasia che forse Altichiero eseguì dopo il ritorno da Padova, poco prima del 1390, anche se alcuni studiosi la datano al 1369 in base a un documento ritrovato negli archivi veronesi. Nel dipinto, un antico omaggio feudale, i nobili cavalieri s'inginocchiano davanti al trono della Vergine posto in un tempio gotico. Le arcate dipinte presentano sulla chiave di volta lo stemma nobiliare della famiglia Cavalli.[62][63][64]

Polittico di Boi, Altichiero o allievo della sua scuola, museo di Castelvecchio

Per numerose altri dipinti collocabili negli anni 1380 e sparse per il territorio veronese è stata proposta l'attribuzione ad Altichiero, benché non vi siano prove certe che non siano invece opera di allievi particolarmente dotati della sua bottega. Ad esempio, una Crocifissione all'interno della basilica di San Zeno e posta sul muro di sinistra sopra l'entrata della sagrestia non permette una sicura attribuzione al maestro di Zevio per via del suo cattivo stato di conservazione ma non vi sono dubbi che lo stile sia a lui riconducibile.[65] L'attribuzione del cosiddetto polittico di Boi (proveniente da Caprino Veronese e oggi al museo di Castelvecchio) ad Altichiero appare più sicura soprattutto dopo i recenti restauri mentre l'affresco raffigurante l'Arcangelo Michele della Chiesa di San Michele a Pescantina è più probabilmente opera di un suo seguace.[66][67] Uno dei suoi allievi, Giacomo da Riva, è autore di una Madonna in trono con Bambino allattante, che data al 1388, dipinta su di un pilastro della chiesa di Santo Stefano.[68][N 1][66][69]

Il Quattrocento: dal gotico al Rinascimento

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L'età di Martino

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Martino da Verona, Incoronazione della Vergine, chiesa di sant'Eufemia

Il passaggio tra XIV e XV secolo coincise per Verona con periodo di instabilità politica. La sconfitta nella battaglia di Castagnaro del 1378 segnò la fine della lunga egemonia degli Scaligeri, che dopo qualche mese sarebbero stati cacciati da Verona dalle truppe viscontee, e la fine dell'indipendenza della città.[70] I successivi brevi domini di Gian Galeazzo Visconti prima e Francesco II da Carrara poi, furono contraddistinti da disordini.[71][72] Approfittando del malcontento dei veronesi, la Repubblica di Venezia inviò il suo esercito che, aiutato in parte dal popolo, riuscì a prendere la città.[73] Con la dedizione a Venezina del 24 giugno 1405 Verona entrò a far parte dei domini della Serenissima.[74][75][76] La pittura risentì di questo periodo difficile offrendo opere dagli schemi irrigiditi, privi di originalità e quasi esclusivamente a tema devozionale.[76]

Protagonista dei primo decennio del XV secolo fu Martino da Verona, molto probabilmente allievo di Altichiero, ebbe molto successo tra i contemporanei nonostante non fosse riuscito né ad arrivare al livello del maestro né ad aggiungere qualcosa alla sua maniera. A lui sono attribuite con certezza soltanto due opere, entrambe presso la chiesa di san Fermo. La prima è la decorazione attorno al pulpito che firmò e datò al 1296, e l'esecuzione di un Giudizio Universale per la tomba di Barnaba da Morano che dovette eseguire tra il 1410 e il 1411.[77] Oltre a queste, gli sono state attribuiti altri affreschi come un'Incoronazione della Vergine e un Giudizio universale per la chiesa di sant'Eufemia,[78] alcuni presso la cappella Cavalli di Santa Anastasia,[79][80] e una Annunciazione e incoronazione della Vergine a Santo Stefano,[81][82] Altri dipinti attribuiti a Martino potrebbero invece appartenere alla mano di Jacopo da Verona, anch'egli allievo di Altichiero che però non ha lasciato a Verona nessuna opera a lui ascrivibile con certezza.[83] Martino muore nel 1412 ma per almeno il decennio successivo i pittori veronesi continueranno a dipingere alla stessa maniera rendendo difficile capire se si tratta di allievi o di Martino stesso.[84]

Correnti tardo gotiche lombarde e veneziane

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Stefano da Verona (attribuzione), Madonna del Roseto, museo di Castelvecchio

L'uniformità degli anni di Martino vennero interrotti dall'arrivo di Stefano da Verona la cui presenza in città è documentata soltanto nel 1425 quando era già cinquantenne. Vasari racconta che già alla sua epoca molte delle numerose opere di Stefano prodotte a Verona erano andate perse. Sopravviveva ancora oggi una Gloria di Sant'Agostino originariamente posta esternamente opera il portale laterale della chiesa di santa Eufemia e oggi spostat all'esterno, anch'essa citata da Vasari. Citato con ammirazione da Giorgio Vasari, l'affresco, che reca la firma dell'autore «STEFANUS / PINXIT», versa oggi in cattive condizioni che lasciano solo immaginare la ricchezza cromatica che poteva vantare.[85][86] Stefano fu autore anche di un grande affresco per la chiesa di san Fermo di cui oggi sopravvivono solo lacerti, scoperti durante un restauro del 1909, raffiguranti Angeli osannanti di gusto squisitamente originale nel contesto veronese e molto lontani dallo stile del Sant'Agostino.[87] A Stefano viene attribuita anche una grande e originalissima tempera su tavola raffigurante Madonna del Roseto e oggi al museo di Castelvecchio sebbene in molti abbiano fatto anche il nome di Michelino da Besozzo come possibile autore.[88]

In ogni caso, gli stili di Stefano e Michelino, si assomigliano tanto che se il Madonna del Roseto fosse attribuita al secondo sarebbe da rivedere anche il catalogo del primo. È probabile che i due, entrambi di provenienza lombarda, si siano formati insieme probabilmente nella bottega del padre di Stefano, Jean d'Arbois, al servizio di Filippo II di Borgogna dove avrebbe appreso alcuni modi della pittura fiamminga. Non vi sono prove documentali di un soggiorno di Michelino a Verona, che comunque lavorò certamente a Vicenza e a Venezia, tuttavia gli influssi suoi e di Stefano contribuirono a plasmare il panorama pittorico veronese del secondo e terzo decennio del quattrocento. Oltre alla attribuzione condivisa con Stefano, a Michelino è attribuito il ciclo di affreschi della Chiesa di San Valentino a Bussolengo.[89]

Pisanello, Monumento a Niccolò Brenzoni, Chiesa di San Fermo Maggiore

Stefano e, probabilmente Michelino, non furono gli unici pittori "itineranti" che in questi decenni che chiudono la prima metà del quattrocento soggiornarono a Verona per tempi più o meno lunghi. Celebre è la presenza in città di Pisanello, tra i maggiori esponenti del Gotico internazionale in Italia e forse nato e formatosi proprio a Verona prima di spostarsi attraverso l'Italia conteso tra le corti più importanti. Nel 1426 decorò il Monumento a Niccolò Brenzoni presso la chiesa di san Fermo. Sempre a Verona dipinse anche la tardo gotica Madonna della Quaglia, oggi a Castelvecchio. Pisanello a Venezia fu collaboratore di Gentile da Fabriano che ne seguì i modi trasferendoli anche a Verona mediati dalla cultura pittorica veneziana; è stato osservato di come "la pittura veronese avesse da tempo dimenticato la monumentalità, e che Pisanello gliela renderà nuovamente ma in uno sforzo che rimarrà isolato".[90] L'esperienza veronese di Pisanello si concluse, probabilmente, con quello che è unanimemente considerato uno dei suoi capolavori: il San Giorgio e la principessa, affrescato tra il 1433 e il 1438 sulla parete esterna sopra l'arco di accesso della cappella Pellegrini nella basilica di Santa Anastasia. Celebrato anche dal Vasari, l'affresco è importante sia per la qualità del tratto e la composizione non banale, sia perché, nonostante i danni del tempo, rappresenta l'unica opera sostanzialmente integra della maturità di Pisanello.[79][91][92]

Jacopo Bellini, Crocifissione, museo di Castelvecchio

Come Pisanello, anche Michele Giambono probabilmente contribuì a portare a Verona lo stile veneizano e la lezione di Gentile da Fabriano. A lui è attribuito l'affresco di sfondo del monumento di Cortesia Serego sul presbiterio di Santa Anastasia.[93][94] Altre due sue opere autografe, una Dormitio Virginis e una Madonna che allatta il Bambino, oggi a Castelvecchio vennero probabilmente dipinte a Verona a dimostrazione di un suo lungo soggiorno a Verona. Circa negli stessi anni di Giambono, in riva all'Adige dovette lavorare anche Jacopo Bellini, anch'egli veneziano. Nel 1436 dipinse una Crocifissione per il duomo andata distrutta nel 1759 mentre un'altra Crocifissione firmata e datata 1436 è oggi esposta a Castelvecchio. Sempre a Castelvecchio è collocato un suo San Girolamo nel deserto collocabile nel terzo quarto del XV secolo.[95][96]

Giovanni Badile, Polittico dell'Aquila, museo di Castelvecchio

Tra tutti questi pittori di formazione lombarda o veneziana che lavorarono saltuariamente a Verona, si distingue Giovanni Badile che qui nacque e, a quanto risulta, mai lasciò la città natale. Cresciuto in una agiata famiglia di pittori, tra le altre opere più significative si ricordano il Polittico dell'Aquila e la Madonna della Levata entrambe a Castelvecchio. A lui, o più probabilmente a qualcuno della sua cerchia, è attribuita anche la cosiddetta Ancona Fracanzani anch'essa custodita nela pinacoteca cittadina. In queste opere è ben visibile l'influsso dell'arte tardo gotica lombarda portata a Verona da Stefano e Michelino. Di diverse altre opere è stata proposta una possibile attribuzione a Giovanni, tuttavia senza poter giungere a conclusioni soddisfacenti; certamente è invece sua la decorazione della Cappella Guantieri, in Santa Maria della Scala di Verona, dove eseguì gli importanti affreschi Storie di San Girolamo e di San Filippo, in stile trecentesco e influenzato da Altichiero sia per l'organizzazione degli scenari architettonici sia per l'utilizzo del colore.[97][98]

Seconda metà del quattrocento: l'arrivo di Mantegna

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Pala di San Zeno, Andrea Mantegna, basilica di San Zeno

Il contesto pittorico veronese nel periodo compreso tra il 1450 e il 1480 fu caratterizzato da una certa desolazione che rese la città poco attraente per gli artisti spingendo anche i migliori locali a recarsi altrove. Le poche committenze furono quasi esclusivamente religiose e i pittori che vi lavorarono non riuscirono ad esprimere idee e correnti nuove che invece si diffondevano nelle altre città venete. Le difficoltà economiche e l'emergere di una nuova classe borghese poco attenta alla cultura umanista, sono le cause più comunemente riconosciute di una tale arretratezza. Sembra che il ruolo di protagonista appartenesse alla scultura dipinta, con Jacopo Moranzone uno dei maggiori esponenti, ma anche la miniatura ebbe un ruolo significativo, con molti pittori che iniziarono la loro carriera cimentandosi in questa pratica. Liberale da Verona e Francesco dai Libri sono probabilmente gli esempi più illustri dell'intensa attività di decorazione che si praticava negli scriptorium veronesi.[99]

La svolta fu segnata dall'arrivo nel 1459 della Pala di San Zeno di Andrea Mantegna, commissionato dall'abate commendatario Gregorio Correr. Con quest'opera, il pittore padovano, portò un nuovo linguaggio pittorico in città traghettando l'arte di Verona dal tardo gotico al Rinascimento. Di certo Mantegna torno a Verona soltanto nel 1497 quando dipinse la Pala Trivulzio per San Maria in Organo, ma la sua presenza in città fu probabilmente più continuativa di quanto si pensi poiché alcune sue opere sono andate perse. Inoltri, molti artisti veronesi si recarono certamente a Mantova per osservare le sue opere, pertanto è certo che la sua influenza a Verona non dovette limitarsi solo all'opera in san Zeno.[100]

Sacra Conversazione, Francesco Benaglio, chiesa di San Bernardino

In ongni caso, affinché dalla lezione di Mantegna potesse scaturire una corrente originale veronese definibile come "rinascimentale" dovettero passare diversi anni In questo periodo di transizione, emerse però l'opera di Francesco Benaglio. Probabilmente doveva essere già un pittore affermanto in città quando nel 1462 ricevette la commissione per una Sacra Conversazione per la chiesa di San Bernardino. Accusata di essere soltanto poco piùù che una copia del trittico mategnesco di san Zeno, l'opera è stata vista "come prova della forzata adattabilità della cultura locale, che continuava a mantenere uno stile tardo-gotico".[101][102][103][104] Altri hanno ancora rigettato l'idea che possa essere considerata soltanto come «una brutta copia» sottolineando che Benaglio non si limitò a imitare Mantegna ma dimostrò anche la capacità di fondere in essa le più recenti correnti artistiche veneziane introdotte dai fratelli Gentile e Giovanni Bellini. Indipendentemente dal giudizio qualitativo sull'opera, è innegabile il contributo che essa portò in città nel tentativo di superare, seppur magari forzatamente, quella stantia cultura tardogotica che da anni sclerotizzava la scuola veronese di pittura per adeguarsi alla «svolta mantegnesca».[104][105]

Madonna col Bambino in trono e le sante Maria Consolatrice e Caterina, Antonio Badile II, museo di Castelvecchio

Oltre a Benaglio, nei primi decenni della seconda metà del XV secolo, a Verona fu attiva una bottega di pittura nota con la denominazione convenzionale di "Maestro del Cespo di Garofano". Le opere di questo gruppo riflettono uno stile che, pur essendo visivamente allineato con il nuovo linguaggio umanistico, mantiene ancora elementi di linearismo e grazia tipica del gotico, arricchiti da un sentore popolare. Dietro questo nome è stata recentemente riconosciuta la mano di Antonio Badile II, figlio di Giovanni, tuttavia non esistono documenti che confermino con certezza la sua paternità. Tra le opere principali di questa bottega: Madonna dei cherubini, I santi Cecilia, Tiburzio e Valeriano, Madonna Mazzanti, Madonna col Bambino in trono e le sante Maria Consolatrice e Caterina, Madonna col Bambino e i santi Biagio e Sebastiano tutte al museo di Castelvecchio e il trittico santi Rocco, Alessandro e Sebastiano per la chiesa di Quinzano.[106]

L'inizio del Rinascimento a Verona

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Santissime Maddalena, Caterina e Toscana, Liberale da Verona, Cappella Cavalli, basilica di santa Anastasia

Il Rinascimento a Verona è generalmente considerato iniziato intorno agli anni 1480, con il ritorno di Liberale da Verona in città e il raggiungimento dell'apice della produzione artistica di Domenico Morone. I colori accesi, la grande forza espressiva, la creatività originale, furono i tratti pecluliari dello stile che Liberale da Verona portò nella città natale dopo un lungo soggiorno a Siena. Sua la decorazione, realizzata con tecnica grisaille, della cappella Bonaveri presso la basilica di santa Anastasia.[107][108][109][110] Sempre in Santa Anastasia dipinse Santissime Maddalena, Caterina e Toscana mentre per il duomo di Verona realizzò una Adorazione dei magi; diverse altre opere presenti in città sono a lui attribuite.[111] Continuò a dipingere fino alla tarda età (morirà nel 1530) perdendo però la qualità delle prime opere, considerate le più originali del Quattrocento veronese, non riuscendo ad adeguarsi alle nuovi correnti.[110] Domenico Morone iniziò come miniaturista per poi dedicarsi anche alla realizzazione di opere di più grandi dimensioni, di cui il polittico San Francesco, san Bernardino, san Bartolomeo e san Rocco è considerato uno dei primi esempi. Le fisionomie di questi santi ricordano quelle proposte da Benaglio, ma con una raffinatezza da lui non raggiunta. A differenza delle opere veronesi del Liberale che mantengono intatti i canoni stilistici di Andrea Mantegna, secondo lo storico Giuseppe Fiocco l'arte di Domenico Morone contemplò maggiormente le voci delle correnti veneziane, pur preservando alcune reminiscenze del gotico.[112][113] Nel corso dell'ultimo decennio del XV secolo, la bottega di Morone fu in continua ascesa ricevendo le commissioni per una serie di cicli per chiese come San Bernardino, Santa Maria in Organo, i santi Nazaro e Celso e infine Santa Maria in Mazara.[114]

Madonna col Bambino e santa Margherita, Francesco Bonsignori

Francesco Bonsignori è un'altra improtante figura attiva alla fine del quattrocento che si può annoverare tra la prima generazione di pittori rinascimentali veronesi. Nato a Verona intorno al 1460, si formò probabilmente sotto Francesco Benaglio per poi proseguire l'apprendistato a Venezia; le sue prime opere veronesi note appartengono all'ottavo decennio del quattrocento: Madonna col Bambino, Pala Dal Bovo , Madonna col Bambino e santa Margherita, Allegoria della musica tutti al museo di Castelvecchio e una pala d'altare che rappresenta la Madonna col bambino in trono con i Santi Giorgio e Girolamo, risale al 1488, per la cappella dei Banda presso la chiesa di San Bernardino. Seppure ancora debitore dei modi dei pittori già affermati, riuscì fin da questi primi lavori a mettersi in luce per un proprio personalissimo stile fatto di "corpi massicci e tarchiati, da una formazione dura quasi legnosa delle pieghe e da un acuto contrasto fra luce ed ombra che modella in maniera molto plastica le forme".[115][116][117]

Cupola della cappella di San Biagio

Il XV secolo si chiuse con l'affrescatura della Cappella di San Biagio (all'interno della chiesa dei Santi Nazaro e Celso), che impegnò il giovane Giovanni Maria Falconetto tra il 1497 e il 1499. Seppur "non essendo mai stato in grado di raggiungere una qualità pittorica davvero soddisfacente", Giovanni Maria fu anch'egli un artista che contribuì alla corrente veronese rinascimentale apportando contributi che apprese durante un suo soggiorno a Roma. La critica ha infatti evidenzato di come la maniera con cui affrescò le pareti della cappella abbia risentito di una forte influenza del Pinturicchio, che probabilmente Falconetto ebbe modo di frequentare. Anche la decorazione della cupola "richiama con maggiore evidenza alle cupole romane a cassettoni e costoloni". Dalle sue esperienze romane, Falconetto, importò a Verona anche l'uso delle grottesche fino a quel momento sconosciute. Al museo di Castelvecchio è conservata una sua tavola raffigurante Augusto e la Sibilla.[118][119][120]

Rinascimento, la scuola veronese di pittura

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Lo stesso argomento in dettaglio: Scuola veronese di pittura.

Il manierismo a Verona

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Il barocco del XVII secolo

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Il Settecento e l'Ottocento

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La pittura del XX secolo

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Annotazioni

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Fonti

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Voci correlate

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