Marco Ramperti (Novara, 24 dicembre 1886 – Roma, 10 aprile 1964) è stato uno scrittore e giornalista italiano. Socialista, egli fu, dall'età giolittiana alla marcia su Roma, principale editorialista de L'Avanti, successivamente romanziere e critico teatrale di successo durante il regime fascista. Nell'epoca della repubblica Sociale, fu uno dei giornalisti di spicco de La Stampa, oltre che collaboratore del ministero della cultura popolare; dopo la guerra frequentò gli ambienti di estrema destra[1].
Egli fu uno scrittore molto apprezzato all'epoca del ventennio fascista da autori contemporanei quali Gabriele D'Annunzio, Ugo Ojetti ed Ezra Pound, venendo però sostanzialmente dimenticato nel dopoguerra. Egli è principalmente ricordato per il romanzo satirico del 1950 Benito I imperatore, precursore del genere del "fantafascismo".
Biografia
[modifica | modifica wikitesto]Giovinezza
[modifica | modifica wikitesto]Trasferitosi a Milano, nel 1910 diventa giornalista e critico letterario. Aderisce quindi al Partito socialista, per poi diventare importante autore della sezione culturale de L'Avanti. nel 1914 si offre di passare a Il popolo d'Italia fondato da Mussolini, venendo respinto con l'accuso di essere un opportunista. Pur essendo contrario alla prima guerra mondiale, da lui considerata il frutto del capitalismo, viene chiamato alle armi. Nel 1919 riprende ad essere curatore della terza pagina de L'Avanti, ma diviene anche editorialista politico, lottando con il vignettista Scalarini in diverse battaglie politiche, come quello per ottenere l'amnistia dei disertori e ai condannati ai tribunali militari[1].
Dalla fondazione dei Fasci di Combattimento nel marzo di quell'anno, dedica molti articoli contro Mussolini. Quando esso, nelle elezioni del 1919, non ottiene neanche a un eletto, Ramperti inscenò assieme ad altri socialisti il suo funerale, portando una bara con un pupazzo del futuro Duce fin sotto casa sua, per poi gettarlo nel Naviglio. Con il rito del Milite ignoto celebrato il 4 novembre 1921, dedica un articolo antimilitarista a tale evento. Nello stesso periodo abbandona il Partito socialista, deluso dalla sua implosione, si avvicina all'estrema sinistra e scrive per le Pagine Libertarie dell'anarchico Carlo Molaschi; collaborò con Il Secolo, ma, con il rafforzamento del fascismo, viene licenziato per ragioni politiche a fine del 1922 e due anni dopo subisce un agguato dalle camice nere, che lo percuotono[1].
Il fascismo
[modifica | modifica wikitesto]Successivamente, però, torna a lavorare regolarmente venendo assunto da La Stampa, divenendo critico letterario e cinematografico, attività in cui ebbe molto successo, finendo per scrivere per molteplici giornali. entra addirittura nella giuria del Premio Viareggio con nomi del calibro di Curzio Malaparte. Divenne un intellettuale molto apprezzato, e gli venne permesso, pur non essendo iscritto al partito fascista, di pubblicare, pur con la clausola che non scrivesse di politica. Egli divenne un protetto di Arnaldo Mussolini e Italo Balbo, mentre il Duce, memore del finto funerale di anni prima, non ne ha alcuna stima. Nel 1931 termina la collaborazione con La Stampa (che però riprenderà anni dopo), e diviene inviato speciale del Corriere della Sera[1].
Nel 1939 scrive un saggio in difesa della censura e invia una lettera a Mussolini, il quale però non risponde, chiedendo quindi la mediazione di Manlio Morgagni, presidente dell'Agenzia Stefani, chiedendo perdono per il suo passato antimilitarista, scrivendo articoli i cui elogia la seconda guerra mondiale in corso, criticando gli Alleati e gli ebrei. Egli critica le leggi razziali del 1938, giudicandole troppo moderate e nel dicembre 1941, mentre è inviato di guerra a Berlino, scrive il reportage Stella gialla, criticando l'utilizzo di un contrassegno per identificare gli ebrei in quanto "riconoscibili al volo". Intriso di un virulento antisemitismo, dedicò articoli di insulti a Charlie Chaplin e scrisse la prefazione per la biografia di May Reeves Charlot ebreo 2 volte (il regista inglese di fatto non era ebreo, ma venne lo stesso attaccato per la satira corrosiva di Hitler e Mussolini contenuta nel suo film Il grande dittatore). Nello stesso anno, sposa Mimì Borsotti, giornalista novarese come lui di venticinque anni più giovane[1].
Nella primavera del 1943 Ramperti scrive articoli di natura diversa, incentrati su gatti e cani, paesaggi e personaggi del passato: il 26 luglio su La Stampa viene pubblicato un suo articolo sugli amici degli animali, il giorno successivo alla caduta del regime, pezzo consegnato in redazione poco prima della destituzione di Mussolini e lo stesso giorno festeggia la sua caduta unendosi ad una folla esultante: nonostante quest'ultimo gesto, viene allontanato da La Stampa[1].
La repubblica sociale
[modifica | modifica wikitesto]Si riavvicina a La Stampa nell'ottobre dello stesso anno una volta costituitosi la Repubblica sociale, tornando a scrivere sulle sue rubriche Il sacco del pellegrino e Errata corrige, tornando a scrivere di quisquilie. Ramperti, però, sfruttando l'assenza di intellettuali vicini al regime, occupa il deserto giornalismo italiano, divenendo il più importante editorialista de La Stampa tornando a scrivere di tematiche politiche dopo vent'anni, quando era un ardente aderente al socialismo. Diventa anche collaboratore del MinCulPop, ricevendo un miglioramento di stipendio e d'immagine, tornando nel novembre di quell'anno ad attacchi antisemiti[1]. Un suo bersaglio prediletto furono gli intellettuali, anche quelli del regime[2].
Nell'inverno del 1943-44, lasciò il suo albergo di Domodossola, in cui aveva a lungo vissuto, per tornare nella sua natìa Novara, dimorando nella sede fortificata della Federazione di Novara del PNF. Si staglia nel panorama propagandistico fascista, scrivendo per diversi giornali e periodici, redigendo articoli come quello della Pasqua del 1944, in cui paragona Mussolini con il Cristo tradito, o come un altro articolo del 6 febbraio dello stesso anno, in cui, dopo essersi fatto falsamente arrestare per incontrare dei detenuti politici, cerca di "redimere" quattro partigiani comunisti. Scrive anche contro gli Alleati, uno dei suoi bersagli prediletti dopo gli ebrei[1].
Egli, di fatto isolato dal panorama intellettuale italiano, lo porta a divenire elemento di spicco della propagandistica fascista, avendo come ammiratori Ferdinando Mezzasoma, ministro del ministero della cultura popolare, ma Mussolini non avrà mai con lui dei contatti personali, forse sempre a causa del finto funerale di decenni prima. Ramperti venne considerato dalla stampa clandestina come il vero e proprio prototipo del collaborazionista, venendo attaccato da L'Avanti con una ferocia senza paragoni rispetto ai giudizi riservati ad altri intellettuali della RSI; fu attaccato anche da Radio Londra[1].
Successivamente, Mezzasoma manda Ramperti e consorte a Venezia, sede del "Cinevillaggio" ufficialmente per la sceneggiatura di un film, di fatto per controllare il comportamento politico degli attori, dimorando nell'hotel Splendido. Egli continua a scrivere su riviste, criticando Hollywood e la plutocrazia ebraica e le loro pubblicità; contemporaneamente, assume comportamenti tipici dell'alta società, venendo costantemente protetto da guardie del corpo. Continua anche a scrivere come editorialista, incitando la mobilitazione totale[1].
A metà luglio del 1944, Ramperti medita di prendere un'aspettativa di sei mesi per trasferirsi con la consorte a Barcellona e da lì inviare la sua corrispondenza a La Stampa tramite il consolato tedesco, ma desistette e rimase a Venezia, dove continuò a vigilare e a scrivere articoli polemici contro la "decadente" arte italiana, prendendosela, tra tanti, con il Quartetto Cetra, l'Orchestra di Gorni Kramer e il cantante Natalino Otto, attacchi non causali ma coordinati con Mezzasoma per limitare "degenerazioni americane" come il jazz; egli tenta anche di "fascisticizzare" il teatro. Ramperti stilò anche un elenco di artisti "mercenari", includendovi Vittorio de Sica, Amedeo Nazzari e Gino Cervi. Conosce ed elogia, invece, Ezra Pound[1].
Il dopoguerra
[modifica | modifica wikitesto]Con l'approssimarsi della sconfitta nazi-fascista, si inasprisce ulteriormente continuando a predicare la guerra civile. Negli ultimi giorni di Salò, improvvisamente, scrive tutt'altro, redigendo articoli sull'eleganza dei guanti, divagazioni zoologiche sui pipistrelli etc. Il 28-30 aprile, Venezia è liberata e Ramperti si chiude in hotel con la moglie tenendo un basso profilo fino al 21 maggio, giorno in cui la comunista L'Unità pubblica un articolo in cui lo si cita. Temendo in peggio, Ramperti si consegna alla questura, ove viene interrogato da una commissione del CLN venendo poi imprigionato a Santa Maria Maggiore con l'accuso di collaborazionismo, venendo poi trasferito in agosto a Torino. In questa fase, egli rivendica la sua appartenenza al socialismo e la sua autonomia di pensiero e il fatto che non prese mai la tessera del PNF ma tutto ciò non lo salvò dal processo, apertosi alla Corte d'assise straordinaria di Torino il 30 novembre del 1945 venendo difeso da Angelo Luzzani e Edoardo Dagasso, venendo condannato a sedici anni di carcere[1]. Trascorse la prigionia nel campo di prigionia di Coltano per soli 15 mesi, venendo poi scarcerato con l'amnistia Togliatti[2].
A fine 1946 tornò al giornalismo politico scrivendo su giornali neofascisti per vent'anni. Si trasferì a Roma dove frequentò ambienti neofascisti e nei primi anni '50 divenne giornalista di fiducia del sindaco di Napoli monarchico Achille Lauro[1]. In questo periodo scrisse il suo romanzo satirico più famoso, Benito I imperatore[1], in cui anticipò il filone ucronico del "fantafascismo", pubblicato al culmine dell'attività propagandistica dei giovani attivisti del MSI, in cui Ramperti prende di mira anzitutto gli intellettuali convertiti all'antifascismo dopo la Liberazione[2].
Redasse anche una autobiografia vittimistica inedita, così come i manoscritti Fine degli immoralisti e Il socialismo dei poeti[1].
Negli ultimi anni della sua vita entrò in confidenza con Indro Montanelli che, con la consueta ironia, di lui disse: "Si lavava assai poco..."[3].
Morì in una clinica di Roma ove era ricoverato per un male incurabile. Dopo la sua morte la pubblicistica neofascista mitizzò la sua figura, diffondendo anche in internet varie leggende apologetiche sul suo conto (ad esempio si cercò di mitizzare le circostanze della sua morte, inventando una versione secondo cui sarebbe deceduto dopo anni di stenti mentre vendeva sigarette di contrabbando alla stazione Termini)[1].
Opere
[modifica | modifica wikitesto]- La bionda vestita di nero; L'albero di Natale; Il poker e un uomo ingenuo; L'amico ignoto; L'inutile dannazione; Animali innamorati, Milano, Vitagliano, 1920.
- La corona di cristallo. Storia ingenua, Milano, Bottega di Poesia, 1926.
- Luoghi di danza, Torino, Buratti, 1930.
- Suora Evelina dalle belle mani ed altre storie d'amore, Milano, Omenoni, 1930.
- Jolanda. 23 aprile 1864-8 agosto 1917, Bologna, Cappelli, 1931.
- Nuovo alfabeto delle stelle, Milano, Rizzoli, 1937.
- Donato Frisia, pittore, Milano, Galleria Gian ferrari, 1938.
- L'appuntamento e altre, ultime storie d'amore, Milano, Sonzogno, 1939.
- Il cieco che ci vedeva, Milano-Cremona, Eli, Ed. Librarie Italiane, 1944.
- Il crepuscolo dei Savoia, Venezia, Casa editrice delle edizioni popolari, 1945.
- Il giardino segreto e altre immagini, Torino, Palatine, 1946.
- Gli usignoli vendicati e altri racconti, Torino, Palatine, 1946.
- Manzoni redivivo, Torino, Palatine, 1946.
- Benito I imperatore, Roma, Scirè, 1950.
- Storie strane e terribili, Milano, Ceschina, 1955.
- Ho ucciso una donna! Storia d'una santità, Milano, Ceschina, 1956.
- Vecchia Milano. Cinquanta capitoli di ricordi rintracciati, Milano, M. Gastaldi, 1959.
- Quindici mesi al fresco, Milano, Ceschina, 1960.
- Casanova riabilitato, Milano, Cino del Duca, 1963.
- Ombre del passato prossimo, Milano, Ceschina, 1964.
- L'alfabeto delle stelle, con una nota di Leonardo Sciascia, Palermo, Sellerio, 1981.
Note
[modifica | modifica wikitesto]Bibliografia
[modifica | modifica wikitesto]- RAMPERTI, Marco, in Enciclopedia Italiana, III Appendice, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 1961.
- Emiliano Marra, Il caso della letteratura ucronica italiana. Ucronia e propaganda nella narrativa italiana., in Between, vol. 4, n. 7, 2014. URL consultato il 25 luglio 2014.
Voci correlate
[modifica | modifica wikitesto]Altri progetti
[modifica | modifica wikitesto]- Wikiquote contiene citazioni di o su Marco Ramperti
Collegamenti esterni
[modifica | modifica wikitesto]- Riccardo D'Anna, RAMPERTI, Marco, in Dizionario biografico degli italiani, vol. 86, Istituto dell'Enciclopedia Italiana, 2016.
- (EN) Bibliografia di Marco Ramperti, su Internet Speculative Fiction Database, Al von Ruff.
- Bibliografia italiana di Marco Ramperti, su Catalogo Vegetti della letteratura fantastica, Fantascienza.com.
Controllo di autorità | VIAF (EN) 70282263 · ISNI (EN) 0000 0000 2365 0453 · SBN CFIV112639 · BAV 495/318733 · LCCN (EN) n82127874 · GND (DE) 1348866659 · BNF (FR) cb11032310j (data) · J9U (EN, HE) 987007413504905171 |
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