De brevitate vitae

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Sulla brevità della vita
Titolo originaleDe brevitate vitae (dai Dialoghi)
Incipit dell'opera in un'edizione del 1643
AutoreLucio Anneo Seneca
1ª ed. originalecirca 49 d.C.
1ª ed. italiana1664[1]
Generedialogo
Lingua originalelatino
(LA)

«Nihil minus occupati est quam vivere»

(IT)

«Niente è meno proprio d'un affaccendato che vivere»

Il De brevitate vitae (spesso tradotto in italiano coi titoli Sulla brevità della vita o La brevità della vita) è un trattato filosofico che occupa il decimo libro dei Dialoghi di Lucio Anneo Seneca.

Inquadramento

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Rientrato dall'esilio in Corsica nel 49 d.C. e prima di rientrare nel grande gioco politico con l'incarico ricevuto da Agrippina di tutore del futuro imperatore Nerone, Seneca ebbe un periodo d'isolamento in cui l'amarezza dell'esilio e il disgusto delle ritrovate pratiche sociali di Roma, dove per rientrare s'era piegato a scritti umilianti, acuirono il suo senso critico per i fondamenti politico-sociali dell'Urbe, che furono investiti da una critica integrale nei suoi presupposti ideologici. Di questo atteggiamento di Seneca tramezzo la caduta in disgrazia per Claudio e l'ascesa al potere con Nerone è efficace esemplificazione questo dialogo, che proprio in quel torno di tempo è per lo più collocato dai suoi studiosi.

Indirizzato al quasi coetaneo padre della tanto più giovane moglie, il cavaliere Pompeo Paolino, che aveva l'importante incarico di prefetto dell'annona, cioè d'allestire la raccolta e distribuzione di grano per l'intera città di Roma, lo stoico e romano Seneca arriva a dare all'amico il consiglio epicureo e antiromano di lasciare la vita pubblica e fare vita ritirata (otium), facendo coincidere la “vita breve” perché persa in occupazioni vane con la vita sociale e politica su cui si fondava Roma, in cui le occupazioni d'ogni tipo non sono, in questa prospettiva, che spreco di tempo e dissipazione di sé, a miglioramento del quale il tempo invece dovrebbe essere dedicato.

Tutto è messo in discussione della società romana in questo dialogo: i negotia (cariche pubbliche), gli officia (obblighi sociali) e gli oblectamenta (passatempi e divertimenti). E se la critica della società è qui condotta a fondo, per giunta il risentimento del reduce da otto anni d'esilio dà a questa critica un tono fortemente sarcastico e satirico – quasi violenta predica cinica – dei quadri e dei tipi di Roma con cui Seneca esemplifica le vite brevi per spreco di tempo.

Mali esempi di negotia

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Nella galleria degli occupati entrano subito tre figure politiche, di cui si riportano frasi che esprimono tedio e nausea per l'impegno pubblico profuso e desiderio di vita ritirata, di otium.

Ecco quindi Augusto, apparentemente esempio massimo di felix nel conseguire tutto ciò che i negotia potevano dare; pure la pesantezza della vita pubblica fatta prima di guerre per conquistare il potere, poi d'intrighi e scandali di corte nel conservarlo gli fanno spesso uscire di bocca espressioni d'insofferenza del potere esercitato e voti d'un felice e dignitoso ritiro. Colui che poteva soddisfare i desideri di tutti, per sé non desiderava che l'otium:

(LA)

«Sed ista fieri speciosius quam promitti possunt»

(IT)

«Ma queste cose si mostrano meglio nei fatti che nelle promesse»

È una frase d'una lettera d'Augusto al senato di cui Seneca cita passi. Con ista Augusto riprende quei voti di ritiro “non discrepante dalla passata gloria” di cui più sopra nella lettera aveva messo a parte il senato. Voti, come la frase riportata dimostra, di cui Augusto aveva però piena consapevolezza, imprigionato nei meccanismi del potere di cui era, come dire, la personificazione, d'essere impotente, lui così potente, di conseguire.

Ecco Cicerone che, immerso nei flutti politici della repubblica pericolante cercando di trattenerla dal crollo, da ultimo rovinato con essa, come detesta e impreca a quel suo consolato non sine causa sed sine fine laudato (non senza ragione ma senza fine lodato). E confessa in una lettera ad Attico di stare semiliber nella sua villa di Tuscolo indeciso che fare nel presente, piangente il passato e disperato del futuro. Mai un sapiente, chiosa Seneca, che ha saputo porsi al di sopra della fortuna stessa potrebbe dirsi semiliber; egli è sempre integrae libertatis (nel pieno possesso della libertà); anche se qui la libertà politica di cui scriveva Cicerone si tramuta in Seneca in pura libertà morale. E la libertà morale, l'indipendenza dagli avvenimenti esterni, l'autarchia meglio si consegue nell'otium che in mezzo ai negotia.

Ed ecco Livio Druso, esempio estremo invece d'infelix, bruciato fin dalla più tenera età dall'ambizione che gli brucia giovane la vita; morto forse per mano propria, come alcuni dubitano, ma non troppo presto, come nessuno dubita. Il peso e fastidio d'una vita breve ma intensamente dedicata alla politica è espresso in questa frase che Seneca riporta in forma indiretta:

(LA)

«Uni sibi ne puero quidem unquam ferias contigisse»

(IT)

«A lui solo non toccò mai un giorno di riposo, neppure da bambino»

Con la figura di Livio Druso la distanza tra otium e negotium tocca il limite massimo e Seneca può concludere che in fuori di momentanee esclamazioni di fastidio e insofferenza le passioni avrebbero ricondotto quei politici (e tanti altri che si sarebbero potuti citare) alle stesse azioni e abitudini dissipanti tempo a tal punto che avrebbero ridotto in limiti angusti anche una vita lunga più di mille anni:

(LA)

«non enim adprenditis nec retinetis nec velocissimae omnium rei moram facitis, sed abire ut rem supervacanea ac reparabilem sinitis»

(IT)

«[Il tempo] infatti voi non l’afferrate né lo trattenete o fate sostare la cosa più veloce di tutte, ma lasciate che se ne vada come cosa superflua e che si possa riavere»

Mali esempi di officia

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(LA)

«Omnium quidem occupatorum condicio misera est, eorum tamen miserrima, qui ne suis quidem laborant occupationibus; ad alienum dormiunt somnium, ad alienum ambulant gradum, amare et odisse – res omnium liberrimas – iubentur»

(IT)

«Di tutti gli affaccendati invero è misera la condizione, ma la più misera è di quelli che neppure s’affaticano nelle proprie faccende; secondo il sonno altrui dormono, secondo il passo altrui camminano, odiano e amano – gli affetti più liberi e spontanei – a comando»

Sparsi per tutto il dialogo sono gli esempi di officia che formavano la rete delle relazioni sociali di Roma. Queste forme di rapporti gerarchici s'andavano sempre più modellandosi sul rapporto imperatore/suddito, che a sua volta s'avviava progressivamente a ricalcare il rapporto padrone/schiavo. Volersi estraniare da rapporti così opprimenti era una via di fuga filosofica a cui la realtà sociale dava forza persuasiva sempre maggiore. E se il subordinato stava al capriccio del superiore, i doveri e le incombenze del superiore che per ambizione si sobbarcava soffocavano la sua vita come la folla di clientes che lo circondano gli toglievano l'aria.

Ecco l'avvocato di grido conteso e scorrazzante in ogni parte del foro; il procuratore tignoso degli altrui, e arricchitosi, dei propri beni, mai dandosi requie; il candidato che s'arrabatta per qualche carica amministrativa com'era la prefettura dell'annona di Paolino; il suffragator che si sbatte per gli appoggi e i voti necessari al candidato; e tante altre figure di occupati ambiziosi troppo indaffarati nelle altrui necessità per aver tempo di volgersi a se stessi. Costoro invece di vivere instruunt vitam, “attrezzano” la vita in vista d'uno scopo che non è vivere; e quando non muoiono prima d'averla preparata, ormai vecchi si rendono conto d'aver vissuto solo in titulum sepulcri, per avere un'iscrizione sulla tomba. Quante volte anch'essi vanamente nel folto delle attività sospirano la loro cessazione o sospensione. Quasi che le avessero scelte solo per poterle abbandonare. Ma i più le lasciano unicamente per impelagarsi fino al collo in altre occupazioni. Del resto, annota Seneca, il successo si paga con altro successo e pro ipsis quae successere vota vota facienda sunt (per i voti riusciti bisogna fare nuovi voti), talché non solo è brevissima ma quanto mai infelice, al di là d'una speciosa apparenza, la vita di costoro che magno parant labore quod maiore possideant (ottengono con molta fatica qualcosa il cui possesso richiede fatica maggiore).

Quanto alla condizione abbrutente dei clientes subordinati ai vari patrones, niente meglio l'esemplifica che il quadro vivo e impressionante che Seneca dà dell'officium del saluto mattutino da porgere ai propri protettori:

(LA)

«Isti, qui per officia discursant, qui se aliosque inquietant, cum bene insanierint, cum omnia limina cotidie perambulaverint nec ullas apertas fores praeterierint, cum per diversissimas domos meritoriam salutationem circumtulerint, quorum quemque ex tam immensa et variis cupiditatibus districta urbe poterunt videre? Quam multi erunt, quorum illos aut somnus aut luxuria aut inhumanitas summoveat! Quam multi qui illos, cum diu torserint, simulata festinatione transcurrant! Quam multi per refertum clientibus atrium prodire vitabunt et per obscuros aedium aditus profugient, quasi non inhumanius sit decipere quam excludere! Quam multi externa crapula semisomnes et graves illis miseris suum somnum rumpentibus, ut alienum expectant, vix adlevatis labris insusurratum miliens nomen oscitatione superbissima reddent!»

(IT)

«Costoro che corrono da un obbligo [sociale] all’altro, che non danno pace a sé e agli altri, dopo essersi ben bene ammattiti, dopo essere passati ogni giorno per tutte le soglie e non aver tralasciato alcuna porta aperta, dopo aver portato in giro il proprio saluto venale per case in direzioni opposte, quanto poco di visite potranno aver fatto in una città così immensa e presa in vari piaceri? Quanti saranno coloro il cui sonno o la lussuria o la scortesia li respingerà! Quanti coloro che dopo averli tenuto a lungo sulle spine tireranno dritto fingendo d’aver fretta! Quanti coloro ch’eviteranno d’attraversare l’atrio pieno di clienti e fuggiranno da un passaggio nascosto della casa, come se non fosse più sgarbato ingannare che chiudere fuori! Quanti coloro che, sonnolenti e torpidi dei bagordi del giorno prima, di quegl’infelici che ruppero il sonno per aspettare l’altrui il nome suggerito a mezza bocca mille volte lo diranno in un insolentissimo sbadiglio!»

Convicium saeculi

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(LA)

«Solebat dicere Fabianus, non ex his cathedraris philosophis, sed ex veris et antiquis: «Contra adfectus impetu non subtilitate pugnandum, nec minutis volneribus sed incursu avertendam aciem; [non probat cavillationes] nam contundi debet, non vellicari»»

(IT)

«Soleva dire Fabiano, non di questi filosofi da cattedra ma di quelli veri e antichi: «Contro le passioni bisogna combattere con impeto non con sottigliezza, e non con scaramucce ma d’assalto va messo in fuga il fronte opposto; infatti dev’essere fiaccato non punzecchiato»»

Ma il convicium saeculi (la critica di costume, diremmo oggi, la satira dei modi e le mode caratterizzanti un tempo e una società) tocca il culmine nella critica sull'uso del tempo libero che si era solito fare nella società romana. Questa felice espressione latina è tratta da Seneca padre che così definisce il tema più efficace delle declamazioni di Papirio Fabiano. Divenuto filosofo, usò quest'ardore di critica nelle sue prediche morali di sapore cinico-stoico. E queste piacquero a Seneca figlio, che cita più volte Fabiano nei suoi scritti, come anche in questo dialogo di feroce critica del suo tempo.

Dunque anche il tempo libero occupano gli occupati, consumandolo in passatempi e passioni alla moda che segnano i tratti sociali dell'Urbe, città così esplosa demograficamente da assumere caratteristiche di costume che oggi diremmo “di massa”.

Non solo coloro che bruciano l'otium nella lussuria e nel bere, ma sfilano nell'impietosa galleria senecana anche i patiti della palla e dei latrunculi (gioco arieggiante gli scacchi), i maniaci delle canzoni del momento, come pure i fissati dell'abbronzatura o della capigliatura; oppure i meri perdigiorno che bighellonano nei posti affollati come la basilica (luogo del mercato e degli affari), da cui saranno scacciati solamente dai cani sguinzagliati in orario di chiusura contro chi si attarda.

(LA)

«Ex his elegantiae lautitiaeque fama captatur»

(IT)

«Con queste cose s’insegue la fama d’eleganza e magnificenza»

Ma l'attacco più deciso è ai passatempi delle classi alte che ambiziosamente propongono le loro futili stravaganze come inimitabili modelli da imitare, i loro vizi/vezzi – spesso coltivati ad arte – quasi signa felicitatis (a dimostrazione del successo raggiunto). Ecco il fanatico collezionista di vasi artistici, il grandioso allestitore di cene sfarzosissime, gl'insaziabili cultori di curiosità culturali da sfoggiare con vacua pedanteria, ecco quelli per cui persino le più elementari funzioni corporali sono demandate ad appositi schiavi. «Iam sedeo?» («ora siedo?»), cita Seneca uno di questi campioni della storditezza fatta raffinata stravaganza, che tanto dice dopo che gli schiavi di peso l'avevano adagiato dal bagno sulla sedia. E altri ancora.

Ed è proprio qui, nella descrizione di questi stili di vita eccezionali, che esce fuori spontaneamente, per necessaria concatenazione di cose, la miserabile condizione di vita dell'ultima classe dell'Urbe: gli schiavi. Ad essi sono infatti demandati ed essi sostengono, come cose umane, i ruoli più turpi, stomachevoli e massacranti che i raffinati piaceri dei loro signori impongono. E con questa silenziosa, necessaria e infame presenza sotto lo splendore delle deliciae (godimenti squisiti) degli eleganti, il quadro sociale di Roma è completo. Non stupisce a questo punto il consiglio dato a Pompeo Paolino: «Excerpe itaque te vulgo» («Strappati dunque dal volgo»).

Invito all'otium ovvero vacare sapientiae

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(LA)

«Soli omnium otiosi sunt qui sapientiae vacant, soli vivunt»

(IT)

«Di tutti solo coloro che hanno tempo per la sapienza hanno tempo libero, solo essi vivono»

Ora dunque, esorta Seneca, che ancora rimane forza e vigore, è tempo di ritirarsi dalle tempeste della vita pubblica e mettere a frutto per cose più grandi quella capacità d'animo dimostrata nell'incarico dell'annona. Né è un invito a spegnere nell'inerzia o soffocare nei piaceri volgari l'impulso a fare (quidquid est indolae vividae) di Paolino. In questa vera quiete avrà tempo e potrà dedicarsi – concetti uniti in latino nel verbo vacare – al miglioramento di se stesso e alla conoscenza delle grandi questioni, che è l'attività più degna d'un uomo, cioè diventare sapiente:

(LA)

«Expectat te in hoc genere vitae multum bonarum artium, amor virtutium atque usus, cupiditatium oblivio, vivendi ac moriendi scientia, alta rerum quies»

(IT)

«In questo genere di vita ti aspettano molte nobili dottrine, amore e uso delle virtù, oblio dei desideri, scienza del vivere e morire, alta quiete in ogni cosa»

Qui il sapiente può usare tutto intero il tempo che gli è dato e rendere lunga la vita. Che se il tempo è diviso in tre parti, ciò che fu, che è, che sarà, il sapiente userà nel ricordo sereno e scevro di pentimenti e rimorsi il tempo che fu, saprà usare, per fuggevole che sia, il tempo che è nella pratica della virtù, saprà anticipare nella premeditazione imperturbata da timori o desideri il tempo che sarà, raccogliendo in uno quanto invece sconnessi e forati nell'animo come un vaso rotto gli occupati lasciano fluire interamente via.

Ma chi si dedica alla sapienza potrà aggiungere a tutto il suo tempo conquistato a se stesso anche il tempo di tutti i grandi del pensiero, le cui vite e realizzazioni sono per chi saprà e vorrà usarle. Anzi la loro dimestichezza, a differenza dei sordidi rapporti sociali presenti, sarà improntata ad amicizia e rispetto, e ci si accosterà e congederà dal loro colloquio senza sgarbi o amarezze ma lieti d'aver ottenuto ciò che si voleva:

(LA)

«Hos in veris officiis morari [putamus] licet dicamus, qui Zenonem, qui Pythagoran cotidie et Democritum ceterosque antistites bonarum artium, qui Aristotelen et Theophrastum volent habere quam familiarissimos. Nemo horum non vacabit, nemo non venientem ad se beatiorem, amantiorem sui dimittet, nemo quemquam vacuis a se manibus abire patientur; nocte conveniri interdiu ab omnibus mortalibus possunt»

(IT)

«Questi possiamo dire che intrattengono veri obblighi reciproci, i quali ogni giorno Zenone, Pitagora, Democrito e tutti gli altri sacerdoti delle nobili dottrine, i quali Aristotele e Teofrasto vorrano avere quanto più intimi. Nessuno di loro sarà che non avrà tempo, che non congederà più felice e affezionato chi a loro verrà, nessuno di loro lascerà che qualcuno vada via a mani vuote; la notte si possono incontrare e il giorno da chiunque.»

La vita è dunque lunga se il tempo è bene speso; se invece è sciupato la vita è brevissima, e anche chi dura molto ha invero pochissimo vissuto. E mentre molti di questi sopravvissuti predispongono per sé esequie solenni e sfarzose, meriterebbero invece – com'era usanza per i morti bambini – funerali condotti a lume di fiaccole e ceri.

Indice capitoli

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Cap. Titolo
I. Se la vita è breve è colpa degli uomini (occupati)
II. Rassegna delle occupazioni con cui si abbrevia la vita
III. Gli uomini sono grandi dissipatori del tempo
IV. Vittime illustri di una vita affaccendata I: Augusto
V. Vittime illustri di una vita affaccendata II: Cicerone
VI. Vittime illustri di una vita affaccendata III: Livio Druso
VII. Gli affaccendati non sanno vivere e ne hanno coscienza
VIII. Gli uomini sono prodighi del tempo perché non ne conoscono il valore
IX. Vivi oggi, domani sarà tardi
X. La vita degli affaccendati è così breve perché è circoscritta al fuggevole presente
XI. Proprio perché non sanno vivere sono insaziabili di vivere, al contrario del saggio, sempre pronto ad uscire dalla vita
XII. Chi sono gli affaccendati
XIII. L'erudizione, quando è fine a se stessa, è una perdita di tempo
XIV. Vive solo chi dedica il suo tempo alla saggezza e si fa contemporaneo dei grandi spiriti del passato
XV. Il saggio è al di sopra del tempo, come dio
XVI. Invece gli affaccendati sono preda di stati d'animo smaniosi e contraddittori
XVII. Gioie e piaceri sono amareggiati dal senso della loro precarietà
XVIII. Esortazione a Paolino perché abbandoni le occupazioni pubbliche...
XIX ...e si dia alla vita contemplativa
XX. Di fronte alla pace del saggio, l'alienazione degli affaccendati: muoiono senza aver vissuto

(titoli di A. Traina, edizioni BUR, 1994)

  1. ^ Della breuità della vita parafrasi del conte A. Caprara in Bologna, per Giacomo Monti, 1664; cfr. Il Libro di Seneca della brevitade della vita humana in un autografo di Andrea Lancia, in «Studi di Filologia Italiana», LXXI (2013), p. 317.

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