Accento distintivo sui monosillabi

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Nella lingua italiana, per accento distintivo su un monosillabo si intende un accento grafico, la cui funzione non è tanto quella di indicare la pronuncia tronca del monosillabo, quanto il suo valore grammaticale, distinguendolo dagli omografi, così da renderne immediatamente riconoscibile il significato.

In italiano la normativa ortografica non è sempre motivata sul piano logico né coerente, ma si rifà perlopiù a ragioni d'ordine storico o di prevalenza d'uso.

La situazione attuale è così riassumibile:

  • l'accento è sempre presente su ché (nel senso di perché, poiché, affinché), (voce del verbo dare), (sinonimo di giorno), è (voce del verbo essere), e (avverbi), (congiunzione), (pronome tonico, ma vedi l'eccezione sotto), (avverbio), (nome della bevanda);
    • è omissibile su quando seguìto da stesso e medesimo, per consolidamento d'uso. Si tratta, tuttavia, di una prassi imposta nell'insegnamento scolastico ritenuta discutibile e senza valida giustificazione grammaticale da molti autori[1];
  • è talora usato su dài (imperativo di dare), per evitare confusione con l'altrimenti omografo indicativo (dai);
  • si trova talvolta anche su (indicativo di dare), dove però viene generalmente sconsigliato (tranne in caso di raddoppiamento fonosintattico), poiché una confusione con la nota musicale do è improbabile.

Era inoltre sempre presente nella grafia priva di h-, oggi obsoleta e sconsigliabile, delle voci del verbo avere ò, ài e à[2].

Del tutto agrammaticali sono invece, secondo l'odierna ortografia, le grafie accentate quà e quì, diffuse sino a tutto il Settecento, in quanto la u dopo la q può avere soltanto valore semiconsonantico, /w/, ed è quindi incapace di portare l'accento tonico, il quale non può dunque che ricadere sull'ultima vocale senza problemi di ambiguità di pronuncia.

In italiano, il ché (/ke/), nella grafia accentata e con accento sempre acuto, indica o distingue un particolare tipo di che, il quale introduce determinate proposizioni ed è interpretabile di volta in volta come aferesi della congiunzione introducente.

Può introdurre:

L'accento lo distingue da un che congiunzione generica (che polivalente), o dal pronome relativo, o anche dal che interiettivo con valore esclamativo. L'impiego dell'accento, attestato fin dal XIII secolo, può essere stato indotto anche dalla pronuncia particolarmente vibrata che lo accompagna in tali contesti.

Oggi il ché d'introduzione alle interrogative dirette e alle finali è quasi scomparso, mentre lo si trova usato nelle causali, dove però viene spesso sentito come un generico che subordinante e perciò viene erroneamente scritto senza accento; ma nella scrittura sorvegliata è da evitare la grafia non accentata del ché causale. Come regola pratica per un suo uso corretto ci si deve chiedere se stia introducendo una proposizione causale, interrogativa o finale e se possa essere sostituito rispettivamente da perché, poiché, giacché o affinché: allora andrà scritto con l'accento.

Dal Dizionario d'ortografia e di pronunzia (DOP):

«che cong. […] per lo più con l'acc[ento] scritto (ché) se usata col valore causale di «perché, giacché» (uso solo lett[erario] in frasi interrogative, altrimenti comune): padre mio, [per]ché non m'aiuti? (Dante); alzatevi, [giac]ché non voglio farvi del male… (Manzoni); o, meno spesso, col valore finale di «perché, affinché»: La lampada levai, [affin]ché il lume gli occhi non le ferisca (A. Negri)[3]»

Dal Vocabolario Treccani

«ché cong. – È la cong. che, adoperata col senso di perché (interrogativo o causale), e scritta con l’accento perché pronunciata con tono vibrato»

Dall'Italiano (Luca Serianni)

«I. che. Di uso molto largo nel parlato […] tende ad essere evitata nello scritto appena sorvegliato, dove si preferisce ricorrere piuttosto alla variante grafica ché, sentita come forma ridotta di perché (giacché, poiché) […]»

«Parallelamente al ché causale, con accento grafico, si può anche trovare, ma raramente, un ché finale: […]»

In italiano, la grafia «dà» indica la 3ª persona singolare dell'indicativo presente del verbo dare (egli dà) per distinguerla dalla preposizione semplice da.

Oggi le grammatiche migliori,[4] all'interno dello stesso paradigma verbale, per la 2ª persona singolare dell'imperativo prevedono la forma dai (tu), o quella apostrofata da' (forma apocopata di dai), preferendola alla prima per evitare l'ambiguità con la 2ª persona singolare dell'indicativo presente, mentre la forma (tu), tradizionale come per gli altri imperativi monosillabici ancora nell'Ottocento, è prevista solo con raddoppiamento fonosintattico,[5] cosicché non c'è più il problema di distinguerla dalla 3ª persona singolare dell'indicativo presente.

Il plurale di "dio" è "dèi", con accento grave[6]. L'accento serve a distinguerlo dalla preposizione articolata e partitivo "dei", segnalando inoltre la diversa pronuncia: dèi /dɛi̯/, dei /dei̯/. Particolare è anche l'articolo determinativo irregolare che questa parola prende - gli dèi - perché deriva da un originario *gli iddei (cfr. "Iddio").

In italiano, la grafia «dì» indica il sinonimo di "giorno" (dies, da cui deriva, è appunto il vocabolo latino per "giorno"), distinto dalla preposizione semplice di, nonché dal nome della lettera D; l'accento serve anche per distinguere questa forma dalla seconda persona dell'imperativo del verbo dire, (tu) di', tuttavia i dizionari suggeriscono anche la grafia «dì», in seconda opzione[7].

Serianni, per l'imperativo, caldeggia la grafia con l'apostrofo - ammissibile come apocope dell'etimo latino DĪC o volendo anche delle forme enclitiche come dimmi ecc. in cui il complemento di termine è comunque sempre sottinteso in un imperativo del verbo dire - ritenendola opportuna per mantenere distinte le tre grafie del verbo «di'», del sostantivo «dì» e la preposizione «di».

In italiano, la grafia «è» (/ɛ/ con accento sempre grave, anche nel derivato «cioè») indica la 3ª persona dell'indicativo del verbo essere (egli è), per distinguerla dalla congiunzione coordinativa e.

In italiano, la grafia «là» indica l'avverbio locativo col valore di 'in quel posto', situato in un luogo terzo rispetto a chi parla e a chi ascolta, per distinguerlo dall'articolo determinativo e dal pronome personale la femminile singolare, e dalla nota la.

In italiano, la grafia «lì» indica l'avverbio locativo col valore di 'in quel posto', ma più puntuale di , per distinguerlo dal pronome personale li maschile.

È bene ricordare che nel linguaggio burocratico il "li", che si usa anteporre alle date, non va accentato perché non rappresenta alcun avverbio di luogo; bensì si tratta di un residuo dell'antica forma li (articolo determinativo maschile plurale) variante degli attuali i e gli.

Dal Dizionario d'ortografia e di pronunzia (DOP):

«tuttora in uso li nelle indicaz[ioni] di data, secondo una formula burocr[atica] fissa: Torino, li 31 gennaio 2005; err[ato] l'uso davanti a , che è sing[olare], e pure err[ata] in ogni caso la g[ra]f[ia] accentata (lì 31…), magari seguita da virgola (lì, 31…)[8]»

Dalla Treccani:

«li1 art[icolo] determ[inativo] m[aschile] pl[urale] – Variante ant[ica], poet[ica] e dial[ettale], dell’art[icolo] gli […]; oggi sopravvive, ma sempre più raram[ente], nella corrispondenza formale o burocratica, nelle indicazioni di data: li 10 ottobre (non però col 1° del mese, perché 1° è sing[olare]; e in ogni caso sempre senz’accento)»

Dall'Italiano (Serianni)

«Nel linguaggio burocratico sopravvive li nelle date («Napoli, li 6 maggio 1987»); scrivere con accento, come talvolta si fa, è errato: è meglio sopprimere senz'altro l'articolo o, semmai, usare il maschile singolare il

In italiano, la grafia «né» (/ne/), con accento sempre acuto, indica la congiunzione coordinativa negativa, per distinguerla da ne avverbio (col valore di 'di lì') e pronome; è sempre senza accento anche il ne parte iniziale delle preposizioni articolate nello, nella, ecc., che si trova nell'uso letterario e poetico (sei ne la terra fredda / sei ne la terra negra) e oggi è impiegata talvolta nelle citazioni davanti ai titoli che incominciano con l'articolo («ne I promessi sposi»), per rispettarne la precisa formulazione, anche se in quest'ultimo caso da alcuni è ritenuta discutibile.[9]

L'accentazione di congiunzione è probabilmente stata indotta dalla maggior enfasi che sembra avere la sua pronuncia rispetto al ne clitico (avverbio e pronome), quindi atono, che si trova in grafia staccata solo quando è proclitico e non deve indurre in errore quando compare in forma elisa davanti a è nella grafia n'è (trattasi in questo caso sempre e soltanto del ne pronominale senza accento).

Va segnalato inoltre che anticamente aveva pronuncia aperta (/nɛ/), derivando dal latino nĕc: perciò in testi antichi la grafia «nè» con accento grave è conforme alla pronuncia dell'epoca,[10] che oggi invece non è considerata corretta.

Dal Dizionario d'ortografia e di pronunzia (DOP)

« cong[iunzione] […] con aperta la p[ro]n[uncia] più antica, attestata con sicurezza fino a tutto il '700, e conforme al lat[ino] nec con -e- breve; poi passata a chiusa per effetto della costante posiz[ione] protonica — bene la g[ra]f[ia] in edizioni moderne di testi antichi[11]»

Dalla Treccani:

«Nella sua doppia funzione, di pron[ome] e avv[erbio], la particella ne è sempre atona, proclitica al verbo nella maggior parte dei casi»

Il pronome riflessivo di 3ª persona «sé» (/se/), nella forma forte (tonica), richiede il segnaccento (sempre acuto) per distinguersi dagli omografi se congiunzione e se pronome atono (allomorfo di si, per es. in se n'è andato o se lo dimentica). Si scrive quindi: da sé, in sé, tra sé e sé, a sé stante ecc.

Mancata accentazione occasionale

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Molti scriventi, anche in ambito colto e letterario, non accentano davanti ai rafforzativi stesso e medesimo[12], con la motivazione che tali aggettivi chiarirebbero automaticamente il valore pronominale della particella rendendo così superflua la presenza dell'accento. Tale eccezione però è contestata da autorevoli grammatici, che la ritengono una regola «fasulla», cioè non facente parte delle reali norme ortografiche dell'italiano contemporaneo, un'«inutile complicazione» e anche «assurda».

Fino al Settecento, il pronome era prevalentemente senza accento in ogni contesto. Nell'Ottocento si inizia a prediligere la grafia accentata, soprattutto nei grandi scrittori: il Manzoni nei Promessi sposi lo accenta sempre.[13] Nei primi decenni del Novecento diventa una regola, sulla scorta degli altri monosillabi portatori d'accento in caso di omografia. Parallelamente alla diffusione dell'accento grafico, si è però diffusa anche l'abitudine a non accentarlo davanti agli aggettivi stesso e medesimo, con l'argomentazione che la presenza dei due rafforzativi annulli qualsiasi possibilità di fraintendimento. Tale abitudine, che si è consolidata tanto da finire nelle grammatiche scolastiche quale presunta norma ortografica, non tiene però conto che alcune possibilità di fraintendimento rimangono, e precisamente nei segmenti frasali se (io) stessi e se (egli) stesse.

La diffusione di questa prassi ha dato talvolta il via a false convinzioni più o meno radicate:

  1. la convinzione ipercorrettistica che le grafie sé stesso e sé medesimo siano un errore ortografico, convinzione infondata poiché in nessuna grammatica di riferimento, dal Novecento in poi, si giustifica l'eliminazione di un accento sui monosillabi solo perché apparentemente non necessario, specialmente quando esistono comunque grafie potenzialmente ambigue (se stessi, se stesse) in cui l'accento può essere utile; quindi si dovrebbe per lo meno tollerare la presenza di entrambe le grafie (senza e con accento) anche in presenza dei rafforzativi. Secondo Luca Serianni, la convinzione nasce da una pratica discutibile dell'insegnamento scolastico in Italia[1].
  2. la convinzione che, secondo un imprecisato principio di "parsimonia ortografica", l'accento sia un'eccezione alla presunta grafia standard senza accento: in questo caso, l'apposizione dell'accento sarebbe obbligatoria solo quando vi siano reali possibilità di fraintendimento. Se la regola fosse però questa – come fa notare Camilli (vedi) – bisognerebbe aspettarsi che nella pratica l'accento sparisse anche in contesti come da sé o in sé, dove la possibilità di ambiguità è nulla e dove, pure, l'uso dell'accento è incontrastato.

Riassumendo, attualmente sono usate e ritenute accettabili sia le grafie con accento sé stesso, sé medesimo sia quelle senza accento se stesso, se medesimo; queste ultime però, generalmente ammesse per la loro diffusione e il consolidamento d'uso, vengono da più parti sconsigliate, perché costituiscono una complicazione e un'eccezione a una regola altrimenti molto semplice, quella che vorrebbe accentato sempre.

Secondo i dizionari

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Il Dizionario d'ortografia e di pronunzia (Migliorini, Tagliavini, Fiorelli, Bórri; nuova edizione multimediale del 2007) raccomanda (alla voce , pronome) l'uso dell'accento:

«[…] frequenti ma non giustificate le varianti grafiche se stesso, se medesimo, invece di sé stesso, sé medesimo: eccezione che si vorrebbe motivata con l'impossibilità di confusione tra se cong. e pron. quando questo sia seguìto da stesso, -sa, -si, -se, ecc. - a favore della gf. [grafia] sempre accentata l'opportunità di seguire una stessa regola per tutte le occorrenze del pron. ; non essendo, oltre tutto, da escludere qualche possibile confusione di sé stessi, sé stesse con se stessi, se stesse imperf. cong. di stare (es.: conoscere se stessi bene, «…se io, o tu, stessi…»; conoscere sé stessi bene, «…sé medesimi…») […][14]»

Il vocabolario De Mauro, edito da Paravia, registra (senza commenti) l'uso senza accento:

«sé, pron.pers. di terza pers.m. e f.sing. e pl., s.m.inv.
I pron.pers. di terza pers.m. e f.sing. e pl.
FO forma tonica del pronome personale di terza persona singolare e plurale usata nei complementi retti da preposizione, solo in riferimento al soggetto […] |spesso è rafforzato da stesso o medesimo: adesso è inutile prendersela con se stessi, non gli manca la fiducia in se stesso | si usa, spec. nelle contrapposizioni, al posto della forma atona si per dare risalto al complemento oggetto: l’alternativa di favorire sé o gli altri, ha rovesciato il bicchiere bagnando sé e gli altri, tradire se stessi»

Il vocabolario Zingarelli edito da Zanichelli, invece, fa notare il possibile equivoco (dalla scheda sull'accento):

«sé (pron.): fa tutto da sé; da sé stesso (in questo secondo caso, quando è seguito da stesso, si può anche scrivere senza accento; è tuttavia consueta anche la forma accentata, per evitare equivoci che, nel caso di se stessi o se stesse, potrebbero verificarsi.»

Il vocabolario Treccani di Aldo Duro:

«[…] assai spesso, come compl. oggetto ma anche con i complementi già veduti, è rafforzato da stesso o medesimo […] in questi casi il pron. è scritto spesso, ma senza valide ragioni che lo giustifichino, senza accento: se stesso, se medesimo (in ogni altro caso la grafia senz'accento è antiquata).»

Il Devoto-Oli segnala espressamente la doppia possibilità:

« pron. rifl. […] Spesso è rafforzato con stesso e medesimo: in tal caso può avere l’accento o esserne privo (presente a se stesso, o a sé stesso

Laconico ma preciso, il Dizionario della Lingua italiana di Francesco Sabatini e Vittorio Coletti:

« [/'se/] pron., s. (si può non accentare prima di stesso, medesimo).»

«sé pron. pers. Forma tonica […]; rafforzata da stesso o medesimo, anche senza accento: pensare solo a se stessi»

Nel Grande Dizionario Italiano di Aldo Gabrielli:

«A pron. person. di 3ª pers. m. e f. sing. e pl., (forma tonica dei pron. lui, lei, loro) 1 Si usa in vari compl. riferito, con valore riflessivo, al soggetto della proposizione: […] || rafforz. Anteposto a stesso (scritto di solito senza accento: se stesso) o medesimo»

Nel Garzanti:

«pron. pers. rifl. m. e f. di terza pers. sing. e pl. […]; si usa nei complementi retti da preposizione, spesso rafforzato da stesso o medesimo (e in questo caso può essere anche scritto senza l'accento): si preoccupano solo di sé stessi»

Secondo le grammatiche (e altro)

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La Grammatica Italiana di Luca Serianni propende per l'accentazione pur constatando che nell'uso comune non predomina:

«Senza reale utilità la regola di non accentare quando sia seguito da stesso o medesimo, giacché in questo caso non potrebbe confondersi con la congiunzione: è preferibile non introdurre inutili eccezioni e scrivere sé stesso, sé medesimo. Va osservato, tuttavia, che la grafia se stesso è attualmente preponderante: […]»

«sé stesso / se stesso: la norma ortografica per la quale il pronome dovrebbe perdere l'accento se seguito da stesso è un'inutile complicazione. La forma va accentata, come avviene per altri monosillabi, perché può confondersi in certi contesti con la congiunzione se. Non vale osservare che la presenza di stesso elimina quest'ambiguità: con la stessa logica dovremmo togliere l'accento da quando costituisce un'unica frase, perché il contesto ci impedisce di pensare al pronome riflessivo si. L'uso degli accenti deve rispondere a criteri di massima funzionalità e può sempre essere perfezionato. Ora, se è vero che l'uso attuale è fortemente sbilanciato in favore di se stesso, d'altra parte, la forma con accento è contemplata, accanto all'altra, da tutti i grandi dizionari dell'italiano contemporaneo; […] C'è da sperare che la norma del genere sia accolta nelle redazioni delle case editrici e dei giornali»

Si dice o non si dice? Aggiunte alla grammatica di Aldo Gabrielli (Milano, Mondadori, 1976) punta a una regola semplice e con poche varianti:

«Una delle regolette fasulle più dure a morire […] è quella che dice: il pronome si accenta sempre quando è isolato: “se lo porta con sé”, per distinguerlo dal primo se che è congiunzione; invece non si accenta davanti a stesso e stessa, medesimo e medesima perché questa distinzione non è più necessaria; però […] bisogna ugualmente accentarlo al plurale, e scrivere sé stessi e sé stesse per non scambiarli con le forme verbali di stare; invece se medesimi e se medesime vanno sempre senza accento perché la confusione, […], non è possibile… […] Vorrei ripetere […], che una volta stabilito che il pronome si deve scrivere accentato per distinguerlo, […], dal se congiunzione (e l’esempio sopra citato ne dimostra la necessità), non si capisce poi perché uno stesso e un medesimo che seguono debbano modificare questa regola. Si fanno forse eccezioni tra il affermazione e avverbio e il si particella pronominale? Sempre accentato il primo, mai accentato il secondo. Seguiamo dunque una norma comune, e la regoletta fasulla andrà finalmente a farsi benedire.»

Scrivendo e parlando. Usi e abusi della lingua italiana di Luciano Satta (Firenze, Sansoni, 1988) rimane sulla linea di Gabrielli:

«Si volle, e si vuole ancora, questa diabolica distinzione: il pronome si accenta per distinguerlo da se congiunzione, ma non si accenta quando è seguito da stesso perché in questo caso la confusione è impossibile. Qualcuno ha osservato: un momento, con stesso e con stessa va bene, non c’è confusione; con i plurali stessi e stesse però si equivoca, perché ci sono stessi e stesse forme di stare (congiuntivo imperfetto). Geniale rimedio: accentare sé stessi e sé stesse, non accentare se stesso e se stessa. Qualcun altro allora con santa pazienza ha fatto osservare che non era molto intelligente accentare una parola per distinguerla da un’altra e poi sottilizzare caso per caso e vedere se si poteva fare a meno dell’accento; sennò, per esempio, non c’è bisogno d’accentare il pronome in posizione finale (“Farà da sé”) perché inconfondibile. E invero, se si continua di questo passo, nemmeno l’avverbio è sempre da accentare, perché non sempre è confondibile con l’articolo femminile la. In conclusione, e ci sembra cosa sensata: accenteremo sempre il pronome, anche davanti a stesso e a stessa

Pronuncia e grafia dell’italiano di Amerindo Camilli, 3ª ed., a cura di Piero Fiorelli (Firenze, Sansoni, 1965):

«Le grammatiche insegnano che il pronome perde l’accento nelle combinazioni sé stesso, sé medesimo, il che serve soltanto ad aumentare inutilmente le difficoltà ortografiche. Stabilito infatti che il se pronome si distingue dal se congiunzione per mezzo dell’accento, è assurdo andar poi a ricercare quando sia più o quando meno riconoscibile per dare la stura alle sottoregole e alle sottoeccezioni. E l’avere stranamente scelto proprio quelle due combinazioni (ma come distingueremo se stessi qui, se stesse a me, imperfetti di stare, da sé stessi, sé stesse?) e aver lasciato con l'accento, per esempio, il finale di frase, assolutamente inconfondibile con la congiunzione, o locuzioni come per sé stante, di sé solo, a sé pure, che si trovano nelle identiche condizioni di sé stesso e sé medesimo, testimonia solo la mania delle distinzioni e suddivisioni a vanvera di cui qualche volta soffrono i grammatici.»

Il MaPi. Manuale di pronuncia italiana di Luciano Canepàri (2ª ed., Bologna, Zanichelli, 1999) è un altro sostenitore del mantenimento del segno d'accento anche in sé stesso e sé medesimo:

«Denunciamo, ancora una volta, pure la riprovazione dell'assurda "regola" (tipicamente burocratica, giacché aspira unicamente a complicare ciò che è, per sua natura, semplice), che vorrebbe deprivare sé stesso e sé medesimo del legittimissimo accento grafico, accampando cervellotiche motivazioni da perdigiorno e azzeccagarbugli, che trascinano pure l'incauto e pecorile schiavo a scrivere anche *a se stante (invece di a sé stante).»

Nella redazione tipografica dell'Enciclopedia dell'italiano, pubblicata nel 2011 dall'Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, sono state adottate le sole forme accentate ("sé stessa/o/e/i", "sé medesima/o/e/i"), sebbene minoritarie nell'uso rispetto alle equivalenti non accentate[15][16]. Queste ultime, peraltro, vengono indicate come prive di motivazione grafica e fonologica[15]. La stessa enciclopedia, in altro luogo, nega ogni valore di regola ortografica all'omissione dell'accento: essa, infatti, completamente isolata nel sistema grafematico italiano, non possiede alcun valore normativo, configurandosi come mero uso convenzionale[16]. La Grammatica italiana Treccani del 2012 consiglia la forma accentata "sé stesso", definita "più logica ed economica", anche tenuto conto che è proprio la forma non accentata, al plurale, a poter ingenerare qualche confusione (in frasi come "se stesse male, gli telefonerei")[17]

Due le conclusioni dell'Accademia della Crusca: la prima a favore della grafia accentata, salomonica la seconda:

«Alcuni, quando il pronome è seguito da stesso e medesimo, tralasciano di indicare l'accento, perché in questo caso il se pronome non può confondersi con se congiunzione: se stesso, se medesimo. Noi, però, consigliamo di indicare l'accento anche in questo caso, e quindi di scrivere sé stesso, sé medesimo

«In conclusione, sebbene negli attuali testi di grammatica per le voci rafforzate se stesso, se stessa e se stessi non sia previsto l’uso dell’accento, è preferibile considerare non censurabili entrambe le scelte, mancando in realtà una regola specifica che ne possa stabilire il maggiore o minore grado di correttezza. Si raccomanda di tener conto di questa “irrilevanza” specialmente in sede di valutazione di elaborati scolastici e affini.»

è la grafia accentata, possibile ma sconsigliata, che può essere usata per marcare su in qualità di avverbio, ma non di preposizione, quando vi sia possibilità di fraintendimento.

L'introduzione dell'accento grafico può essere dovuta alla pronuncia particolarmente vibrata dell'avverbio su, rispetto alla preposizione, che trovandosi sempre in posizione proclitica è quindi atona. Tuttavia i significati della parola su, sia nella qualità di avverbio che di preposizione, sono talmente contigui - derivano dallo stesso etimo sūsum -, che non vi è praticamente possibilità di alterazione del significato della frase, per questo l'accentazione viene considerata un'enfatizzazione inutile, se non addirittura pedantesca.

Più critico può essere, invece, il caso di su in qualità di interiezione esortativa, in una frase come «Su, muoviti!». In un discorso diretto, la frase «Venite su!» può prestarsi a doppia interpretazione: 1) un invito a salire, propriamente; 2) un'incitazione a seguire l'interlocutore. In questo caso l'ambiguità - che nel parlato verrebbe neutralizzata dall'intonazione e dalla pausazione - può essere fugata dal ricorso all'accentazione, «Venite sù!», che però non assicura l'assoluta infraintendibilità dell'enunciato, in quanto proprio l'accento può spingere a interpretarlo come avverbio; oppure isolando graficamente l'interiezione mediante la punteggiatura, «Venite, su!», demarcando la naturale struttura pausale dell'enunciato.

Dizionario d'ortografia e di pronunzia (DOP)

«su o avv[erbio] […] usato da alcuni l'acc[ento] scr[itto] per distinguere avv[erbio] da su prep[osizione] (spec[ialmente] in frasi di lettura non chiarissima): non c'era che da tirar sù lo sportello della gabbia più piccola (Pirandello) […]; distinz[ione] assicurata altre volte, senza acc[accento] scr[itto], con opportuna punteggiatura: l'altra colonna con, su, la statua dell'Abbondanza (Cicognani) […][20]»

Dizionario Treccani

«su […] 2. avv[erbio] A differenza di su in funzione prepositiva, che è di solito atono perché in posizione proclitica, l’avv[erbio] su è pronunciato con accento vibrato, tanto che da taluni viene scritto con l’accento, , anche per distinguerlo dalla prep[osizione], soprattutto in casi in cui la posizione della parola può lasciare incerti sulla sua precisa funzione (per es., nella frase: hai messo su la pentola?)

[…]

g. Come esclam[azione] con valore esortativo: su, coraggio!; su, via, calmatevi!; su, ragazzi, andiamo!; su, sbrìgati!; su, svégliati, pigrone!; parla, su!; su, dite, che c’è?; dilla, su, la poesia! Ripetuto: su su, smettila!; su, su!, che si fa tardi

Italiano (grammatica) di Luca Serianni

«Superfluo invece l'accento sull'avverbio (per distinguerlo dalla preposizione; il contesto risolve ogni dubbio) […]»

Posizione dell'Accademia della Crusca

«Per quanto riguarda la parola su, è meglio scriverla sempre senza accento: "Venite su!"»

La grafia accentata , spesso riportata dai dizionari come variante, oggi è in disuso e spesso sconsigliata. La giustificazione secondo cui l'uso della forma accentata sarebbe finalizzato ad attuare una distinzione della voce verbale (io) do (verbo dare) dalla nota do non ha ragion d'essere, come ribadito dall'Accademia della Crusca:

"Scrivete do (prima persona del presente indicativo di dare) e soprattutto sto (prima persona del presente indicativo di stare) sempre senza accento: "Ti do ragione", "Sto qui ad aspettarti". Qualcuno mette l'accento sul verbo do, per distinguerlo dalla nota musicale: ma nessuno confonderebbe questi due do, così come nessuno confonde i due re!"[21]

Le altre voci del verbo dare talvolta accentate (tu) dài e (essi) dànno, per distinguerli dagli omografi, vengono invece ritenute più accettabili ma limitatamente ai casi in cui l'accento può dirimere un'effettiva confusione.

  1. ^ a b Luca Serianni, Prima lezione di grammatica, Laterza editore, p. 115-116
  2. ^ DOP, lemma «avere»
  3. ^ Bruno Migliorini et al., Scheda sul lemma "che", in Dizionario d'ortografia e di pronunzia, Rai Eri, 2010, ISBN 978-88-397-1478-7.
  4. ^ Treccani, Grammatica italiana 2012
  5. ^ Così Treccani, mentre altri dizionari registrano tout court anche la forma dell'imperativo del verbo dare: DOP Gabrielli, Garzanti, Sabini-Coletti.
  6. ^ «dio» sull'Enciclopedia Treccani in linea
  7. ^ «Dì» come imperativo del verbo dire nei dizionari: DOP, Deagostini, Garzanti, Sabatini-Coletti,Treccani
  8. ^ Bruno Migliorini et al., Scheda sul lemma "gli", in Dizionario d'ortografia e di pronunzia, Rai Eri, 2010, ISBN 978-88-397-1478-7.
  9. ^ Luca Serianni, Italiano, pag. 133 e 578, collana delle Garzantine, Garzanti, Milano, 2005.
  10. ^ Si tenga però conto che in passato l'accento grafico usato sulla e tonica era quello grave uniforme sia per la e aperta sia per la e chiusa.
  11. ^ Bruno Migliorini et al., Scheda sul lemma "né", in Dizionario d'ortografia e di pronunzia, Rai Eri, 2010, ISBN 978-88-397-1478-7.
  12. ^ Accentazione del pronome se stesso, su accademiadellacrusca.it (archiviato il 17 gennaio 2020).
  13. ^ Anzi il Manzoni scrive rigorosamente con l'accento (grave uniforme) persino sé stesso e sé medesimo. Citando dalla "quarantana" (e limitandoci al maschile singolare): sé stesso, p. 17 (e almeno altre dieci volte); sé medesimo, p. 94 (e almeno altre due volte).
  14. ^ Bruno Migliorini et al., Scheda sul lemma "sé", in Dizionario d'ortografia e di pronunzia, Rai Eri, 2010, ISBN 978-88-397-1478-7.
  15. ^ a b Andrea Viviani, Accento grafico [prontuario], Enciclopedia dell'Italiano (2011), Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani
  16. ^ a b Patrizia Petricola, Prontuario, in sé stesso / se stesso, Enciclopedia dell'italiano, Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani, 2011. URL consultato il 15 maggio 2016.
  17. ^ Se o Sé, La grammatica italiana (2012), Istituto dell'Enciclopedia italiana Treccani
  18. ^ https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/vademecum-sullaccento-quando-indicarlo-e-dove-pronunciarlo/34
  19. ^ https://accademiadellacrusca.it/it/consulenza/accentazione-del-pronome-s%C3%A9-stesso/166
  20. ^ Bruno Migliorini et al., Scheda sul lemma "su", in Dizionario d'ortografia e di pronunzia, Rai Eri, 2010, ISBN 978-88-397-1478-7.
  21. ^ Vademecum sull'accento: quando indicarlo e dove pronunciarlo

Voci correlate

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Collegamenti esterni

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