Discussione:Mercantilismo
In questo articolo siparla di industrie riguardo al mercantilsimo.
Secondo me questo riferimento è sbagliato in quanto il mercantilismo si è affermato fino al 18° secolo su per giù, mentre le prime industrie si sono sviluppate in Inghilterra negli ultimi due decenni del 18° secolo e nel resto d'Europa solo verso la metà del secolo successivo. Il mercantilismo si riferiva infatti ad un sistema non industriale, bensì fondiario ancora legato ai canoni del Medioveo.
Un anonimo contributore ha inserito una gran quantità di testo non wikificato rilasciandolo sotto GFDL. Non sapendo esattamente che farne l'ho nascosto in attesa che qualcuno sia in grado di integrarlo. --J B 13:04, ott 25, 2005 (CEST)
Metto qui in chiaro un testo inserito da anonimo nell'articolo. Da integrare nell'articolo esistente. --Snowdog 19:16, ott 25, 2005 (CEST)
Ho scritto questo testo anni fa, e mi è ricapitato tra le mani. Essendone l'autore lo metto a disposizione con licenza GFDL e Creative Commons Attribution Share-Alike License. Non ho tempo di integrarlo nel testo, per dargli un minimo di visibilità lo inserisco qui, spero che chi si è occupato dell'articolo lo trovi utile
IL MERCANTILISMO
[modifica wikitesto]Cos’è il mercantilismo
[modifica wikitesto]Il mercantilismo non può essere definito a rigor di termini una vera e propria dottrina economica: il nome stesso è stato utilizzato per la prima volta dagli economisti di scuola liberista che intendeva- no così indicare alcune politiche economiche adottate in un periodo compreso tra il XVI e il XVIII secolo in vari stati europei. Nella forma assunta nel continente europeo, il mercantilismo costituì una componente essenziale dell’assolutismo e «crebbe in ogni stato di pari passo col rafforzarsi del potere regio» (B. Behrens): fu infatti l’espressione della volontà di potenza dei principi che, ai loro fini, cercarono di rimodellare le strutture economiche dei loro domini finalizzandole al sostentamen- to di costose politiche di predominio in Europa, a scapito, talvolta, della crescita economica stessa. Questa esigenza portò a una promozione delle attività commerciali e manifatturiere che favorì l’e- voluzione della classe borghese, sebbene il mercantilismo si sviluppasse, per sua stessa natura, in una prospettiva che anteponeva i bisogni dello Stato agli interessi dei singoli.
Teoria e pratica del mercantilismo
[modifica wikitesto]L’origine del mercantilismo
[modifica wikitesto]Nonostante gli economisti di età più tarda, Adam Smith per primo, abbiano negato una qualsiasi coerenza o efficacia alle politiche mercantiliste, gli storici dell’economia moderni, con maggior di- stacco critico e minor spirito di parte, hanno evidenziato come il mercantilismo nasca da «una tripli- ce necessità economica, politica e sociologica» (P. Deyon). È utile per comprendere in cosa consi- stessero queste necessità, esaminare lo sviluppo storico del fenomeno. La fase originaria delle dot- trine mercantiliste è costituita dal cosiddetto crisoedonismo o bullionismo (dall’inglese bullion, lin- gotto), vale a dire l’identificazione della ricchezza con l’abbondanza di metalli preziosi e la conse- guente pratica di scoraggiare l’esportazione di oro e argento e favorirne al contrario l’ingresso. Que- sta teoria, esposta per la prima volta nei paesi che più avevano approfittato delle miniere americane, vale a dire Spagna e Portogallo, venne accettata anche nel resto d’Europa nel corso del XVI secolo: se è del 1557 una memoria di Luis Ortiz che esorta gli Spagnoli ad incrementare la produzione per ridurre il deficit aureo nei confronti dei fornitori inglesi, francesi e fiamminghi, già nel 1540 si ha in Francia una dichiarazione reale, poi ripetuta nel 1548 e nel 1574, che proibisce l’esportazione di metalli preziosi. A partire dal XVIII secolo è stata comunemente accettata l’erroneità di questa tesi, spiegando che l’abbondanza di moneta forte porta solo a un riequilibrio dei prezzi su un livello più elevato (valga ad esempio l’aumento dei prezzi registrato in Spagna nell’arco di tempo in cui questo regno ricevette grandi quantità di oro e argento americani), ma nel periodo in esame tale idea era giustificata dalla necessità, in assenza di strumenti di credito avanzati, di garantire ogni pagamento in metallo pregiato. Quando, intorno al 1630, diminuì bruscamente in Europa la circolazione di me- talli preziosi, in calo da tempo a causa del progressivo impoverimento dei giacimenti minerari cono- sciuti, iniziò una fase di, per così dire, «angoscia monetaria» che portò ad attribuire un ruolo ancora più importante al possesso di oro e argento, indispensabili per il pagamento delle forti spese belliche necessarie in quell’epoca di lotte (ricordiamo che si era nel mezzo della guerra dei Trent’anni, e che la Francia era sul punto di cominciare la serie di guerre che avrebbero accompagnato il suo tentati- vo, sotto Luigi XIV, di acquisire il predominio in Europa). Questa situazione di instabilità e incer- tezza, unita alla concezione statica delle risorse del mondo e al conseguente convincimento che non fosse possibile «creare» nuova ricchezza, ma solo «spostarla» da un paese all’altro, è la base psico- logica che spinse gli economisti del XVII secolo a concepire i rapporti tra gli stati come una guerra economica (guerre d’argent) in cui ogni regno, repubblica o impero doveva cercare di rendersi il più possibile autosufficiente, costringendo le nazioni concorrenti alla dipendenza economica. Per ri- prendere quanto detto in precedenza, alle necessità economica, vale a dire il controllo dei metalli preziosi, e politica, vale a dire il supporto alle guerre, si aggiunge la necessità «sociologica» di so- stenere attivamente con l’intervento statale le iniziative di commercianti e imprenditori, gli unici in grado di procurare all’erario pubblico le ricchezze di cui abbisognava; il risultato di ciò è quell’in- sieme di politiche denominato mercantilismo.
Le politiche mercantiliste
[modifica wikitesto]In un momento più tardo, il mercantilismo classico supera la fase del bullionismo: anche se Loc- ke ancora afferma che «la ricchezza non consiste nel possedere molto oro ed argento ma nel posse- derne di più in rapporto al resto del mondo o ai nostri vicini [...] i quali, avendo una parte minore dell’oro e dell’argento del mondo, mancano di mezzi per procurarsi abbondanza e potere e sono quindi più poveri», sottintendendo alquanto evidentemente l’identificazione del possesso di metalli preziosi con la ricchezza, anch’egli si rende conto di come lo scopo reale della politica economica non sia la ricchezza fine a se stessa, ma il potere ottenibile attraverso una prosperità maggiore. Tutti gli scrittori mercantilisti del XVI e XVII secolo, pur nella diversità delle congiunture e delle situa- zioni internazionali, accettano questo principio e insistono su alcuni temi comuni, che riassumono la politica mercantilista classica e che sono in primo luogo l’apologia del lavoro e degli scambi, quindi la massima attenzione per il mantenimento in attivo della bilancia commerciale, considerata la vera fonte della prosperità di un paese, e infine la volontà di ricchezza e potenza dello Stato. Al contra- rio, è possibile riscontrare il completo disinteresse per l’agricoltura, forse a causa, come ipotizza P. Deyon, dell’oggettiva impossibilità di un azione concreta dello Stato in un ambito completamente controllato nella maggioranza dei paesi europei dai grandi proprietari fondiari nobili, pronti ad op- porsi ad ogni tentativo di innovazione e ancora dotati del potere per farlo. Dalle succitate conclusio- ni derivano gli indirizzi economici concreti seguiti dalle potenze europee nel XVII secolo: sgravio fiscale sull’esportazione di manufatti e proibizione, di diritto o di fatto, delle importazioni concor- renti; riduzione alle sole materie prime delle importazioni e diversificazione della produzione per aumentare la capacità di penetrazione delle proprie merci sui mercati esteri; impulso al progresso delle tecniche manifatturiere per aumentare il margine di guadagno sui manufatti; creazione di una flotta in grado di favorire la diffusione dei prodotti anche nei mercati più distanti. Tutte queste atti- vità richiedono un forte intervento dello Stato non solo indirettamente, come ad esempio avviene con la politica doganale, tesa ad assicurare buone condizioni di partenza alle attività imprenditoriali, ma anche direttamente per orientare queste attività e assecondarne lo sviluppo. Gli stati europei del periodo mercantilista agiscono dunque anche nel mercato favorendo la nascita di nuove industrie, scelte tra quelle che garantiscono un più alto margine di guadagno; è un esempio di intervento indi- retto, teso a favorire lo sviluppo dei lanifici di proprietà privata tra i quali spiccava quello di New- mills, il divieto di esportazione delle lane adottato in Scozia nel 1681, mentre un classico intervento diretto è il trasferimento, fortemente voluto da Colbert, di fabbricanti di specchi dall’Italia a Parigi per migliorare la produzione delle industrie di proprietà della Corona. A questo si accompagna spes- so anche la creazione di «manifatture reali», di proprietà e gestite dallo Stato, che controlla così un segmento considerevole della produzione industriale. Tuttavia, nonostante un biografo dello statista francese, C.W. Cole, scrivesse che «[Colbert] tenne in stima così alta le attività manifatturiere che è difficile dire se attribuisse più valore ad esse o alle imprese commerciali», il sostegno all’industria non era fine a se stesso, ma mirava ad assicurare una bilancia commerciale in attivo attraverso la vendita all’estero di manufatti che grazie al valore aggiunto avevano un prezzo molto più elevato delle materie prime di cui erano costituiti. L’altra categoria sociale che traeva vantaggio da queste politiche era quella dei commercianti, il cui ruolo fondamentale era incentivato dallo Stato con forti sgravi fiscali e privilegi, che, come quello assegnato da Enrico VII nel 1507 alla Merchant Adventu- rers Company inglese, nel Seicento si trasformarono spesso in veri e propri monopoli, nel caso spe- cifico sull’esportazione di panni bianchi. Oltre a questa politica di incentivazione dei privati, fin da- gli inizi del XVII secolo quasi tutti gli stati crearono varie Compagnie nazionali per il commercio con le Indie, sull’esempio della Voc (Vereenigde Oostindische Compagnie, la famosa Compagnia delle Indie Orientali olandese) e della Eastern India Company, inglese, quali le varie Compagnie nationale des Indes, istituita nel 1604 dal re di Francia Enrico IV e rifondata da Colbert nel 1664 come Compagnie des Indes Orientales o la Compagnia delle Indie Occidentali svedese. Molte di queste iniziative si dimostrarono tuttavia degli insuccessi, soprattutto in Francia, dove si ebbero da parte degli armatori e dei mercanti proteste alle imposizioni statali per motivi che si approfondiran- no in seguito.
L’applicazione del mercantilismo in Europa
[modifica wikitesto]Il mercantilismo francese
[modifica wikitesto]La Francia è lo stato che più di tutti applicò le pratiche mercantiliste; fin dal regno di Enrico IV, gli economisti francesi insistettero su alcuni temi fondamentali, che furono alla base dell’opera del vero grande costruttore del mercantilismo francese, Jean-Baptiste Colbert, ministro delle Finanze di Luigi XIV a partire dal 1662. Vero costruttore perché anche se il primo autore mercantilista france- se, Barthélemy de Laffémas, fu già nei primi anni del secolo controllore generale del commercio del Regno sotto il “re navarrino” e ispiratore del progetto di Compagnia delle Indie, egli non ebbe gran- di possibilità di applicare concretamente le sue idee per la breve durata della sua carica, cessata in seguito all’assassinio del re nel 1610; pure i cardinali Richelieu e Mazzarino adottarono alcuni provvedimenti affini, riprendendo ad esempio un vecchio progetto di istituzione di una produzione di vetro «veneziano» o potenziando i cantieri navali reali di Brest, Toulon e Rochefort per allestire una grande flotta mercantile, ma solo con Colbert si ebbe una vera applicazione sistematica delle teorie mercantiliste adattate alla Francia, vale a dire, citando la sintesi di P. Deyon, «proteggere il mercato nazionale, rafforzare le manifatture e la marina, poi lanciarle alla conquista commerciale e coloniale». Il primo passo verso questo obiettivo fu l’istituzione nel 1664 di un Conseil du commer- ce, incaricato di seguire tutte le questioni commerciali, interne ed estere; a ciò seguì una prolungata fase di intervento nelle manifatture di ogni tipo: i provvedimenti di Colbert «protessero» arsenali, fonderie di cannoni, manifatture di merletti, di maglieria, di drappi di lusso o a poco prezzo e, anco- ra, di cuoio, di mattoni, di specchi. Nel giro di tre anni il potente ministro diede inizio ad esempio alla produzione di finimenti a Châtellerault, di calze di lana e di seta a Poitiers, di panni di lana a Bordeaux, di tessuti a poco prezzo ad Abbeville. Per favorire lo sviluppo, oltre al divieto di impor- tare prodotti concorrenti, si adottarono incentivi che prendevano la forma di esenzioni fiscali, mono- poli temporanei di fabbricazione e di vendita, di prestiti, di ordinazioni statali (per decreto le divise dell’esercito francese dovevano essere di panno francese), di privilegi onorifici. Tutte queste facili- tazioni avevano però un prezzo, nella fattispecie l’imposizione di regolamenti ferrei per quanto ri- guarda la qualità dei prodotti: venne istituito un corpo di Ispettori delle manifatture, dipendente da- gli intendenti, incaricato di effettuare controlli sull’applicazione di oltre centocinquanta decreti reali che giungevano ad indicare, ad esempio, anche il numero di fili nell’ordito o la composizione dei colori dei tessuti. Ciò dimostra che per Colbert la competizione commerciale non si fondava sul prezzo ma sulla qualità: se quest’ultima era una caratteristica oggettiva dei prodotti, il primo era in- controllabile a causa dell’incertezza del trasporto per mare e del conseguente andamento altalenante dei prezzi delle merci d’importazione. Colbert attuò anche una politica di agevolazioni agli artigiani stranieri che intendessero trasferirsi in Francia: esemplare è il caso della famiglia Van Robais, di origine fiamminga, proprietaria delle citate manifatture di Abbeville, che ottenne il diritto di profes- sare la religione calvinista senza sottostare ad eventuali provvedimenti reali di restrizione. Minori successi ebbero invece il potenziamento della marina e l’espansione coloniale: se anche i porti di Saint-Malo, Rouen, La Rochelle, Bordeaux e Marsiglia ritrovarono vitalità grazie alla tassa sulle navi straniere nei porti francesi e all’incentivo per le costruzioni navali, i commerci internazionali ripresero vigore grazie alla fondazione di numerose compagnie commerciali a capitale in parte pri- vato e in parte statale e le colonie nordamericane, come le basi commerciali indiane, si rinsaldarono, gli Olandesi mantennero il controllo del commercio col Baltico e con l’Oriente, mentre gli Inglesi si ritagliarono una percentuale sempre maggiore del traffico atlantico, tanto che di tutte le varie com- pagnie commerciali solo due resistettero più di qualche anno. In definitiva l’opera di Colbert non ebbe successi duraturi e non fu in grado di migliorare a lungo l’economia francese; non bisogna in- fatti dimenticare che nonostante le sue iniziative, la Francia restava sostanzialmente un paese agri- colo, poco portato per il commercio internazionale e privo di una vera classe imprenditrice, capace di rinunciare ai guadagni sicuri garantiti dal possesso fondiario e dalle cariche statali. Oltre a ciò la cattiva fama della Corona francese, che giungeva da secoli di insolvibilità, bancarotta e cattiva am- ministrazione non incoraggiava certo mercanti e armatori ad assecondare le decisioni imposte dal- l’alto, anzi favoriva un individualismo che impedì la nascita di Compagnie commerciali salde e non effimere, capaci di conquistare e mantenere percentuali considerevoli del commercio marittimo.
Il mercantilismo in Inghilterra
[modifica wikitesto]In Inghilterra il mercantilismo prese un carattere assai diverso da quello francese, rispecchiando gli interessi commerciali e marittimi del regno. Il governo inglese non intervenne mai nella produ- zione per garantire una qualità costante, né guidò l’economia: al contrario la situazione sociale in- glese, ovverosia la limitata importanza della grande nobiltà e la propensione della gentry, la piccola proprietà rurale e cittadina, ad investire liberamente nei commerci e a non considerare la pratica mercantile indegna del gentleman, fece sì che i grandi mercanti di Londra e Bristol, come i piccoli armatori, legittimati dall’alta considerazione popolare di cui godevano, fossero rappresentati in Par- lamento, consultati dalle commissioni ristrette e dal Board of Trade, e più che disposti ad appoggia- re la politica governativa che si configurava come indirizzo più che imposizione. Questa situazione si verificò comunque solo dopo la Rivoluzione inglese: durante i regni dei Tudor e degli Stuart, la politica inglese fu affine a quella francese. La Corona infatti concesse liberamente privilegi e mono- poli, sia temporanei sia perpetui tanto a mercanti locali, quanto, più spesso, ad abili cortigiani, privi- legiando la nascita e lo sviluppo di industrie controllate dallo Stato. La Rivoluzione segnò una defi- nitiva cesura, annullando la quasi totalità di queste patenti, che non vennero per la maggior parte ri- pristinate. La politica economica inglese successiva fu molto diversa: sotto l’impulso di economisti come Thomas Mun, autore del trattato England’s Treasure by Forraign Trade e formulatore del concetto di bilancia dei pagamenti, e Josiah Child, entrambi direttori della Eastern India Company, si adottò una sorta di “scala mobile” delle tasse sull’importazione, con dazi sul grano più elevati in caso di basso prezzo del prodotto inglese e più bassi nel caso opposto, per garantire protezione dalla carestia e prezzi stabili, che consentivano ai cittadini un maggior potere d’acquisto, elemento essen- ziale per il funzionamento delle manifatture anche in assenza di politiche più protezioniste. Altra ca- ratteristica tipica fu la diversificazione delle produzioni e l’importanza assegnata all’espansione co- loniale, considerate componenti essenziali per il buon andamento dei commerci. Il mercantilismo inglese, dotato come si è visto di importanti correttivi si dimostrò dunque alquanto più flessibile ed adeguato, e permise un’espansione economica reale e duratura.
Il mercantilismo negli altri paesi europei
[modifica wikitesto]Francia e Inghilterra sono gli stati che più di tutti applicarono le tesi mercantiliste, ma non gli unici: anche in Prussia, in Svezia, in Olanda, in Spagna vennero recepite alcune delle pratiche segui- te dagli altri stati, pur con certe differenze e in diversi periodi storici. In Prussia i sovrani favorirono l’insediamento di migliaia di ugonotti francesi, in fuga dalle persecuzioni, per sfruttarne la compe- tenza tecnologica: Federico Guglielmo e i suoi successori incentivarono l’impianto di numerose ma- nifatture nei loro territori e riportarono in attivo la bilancia commerciale, ma più ancora degli altri sentirono l’economia del loro stato come funzionale alla loro politica di potenza. Nel 1796, in un periodo in cui il mercantilismo era stato abbandonato quasi ovunque, in Prussia permaneva un forte controllo statale sull’industria e sulle importazioni e si rifiutavano gli inviti alla liberalizzazione del commercio che venivano dagli altri stati tedeschi, giustificando questa scelta con la necessità dello Stato di regolare l’economia al fine di indirizzarla alla forma più efficiente per il mantenimento del- l’apparato bellico. Il commercio fu inoltre sempre poco considerato: Federico il Grande dichiarò più volte di essere «favorevole all’industria» perché doveva «dare lavoro al suo popolo» ed era «chiaro che un industriale» poteva «impiegare duemila operai mentre il commerciante a mala pena venti». In Svezia si seguì invece il modello francese: durante i regni della regina Cristina e di Carlo XI si cer- cò di sviluppare il commercio e la marina; J. Classon Risingh, funzionario statale, in un trattato del 1669 propose di assicurare abbondanza di denaro contante e attivo della bilancia commerciale attra- verso l’esportazione di prodotti manifatturati di qualità e la riduzione drastica delle importazioni. Nel 1636, 1673, 1687 ordinanze reali sottoposero i mercanti stranieri a una serie di vessazioni e im- posero dazi sui tessuti francesi e inglesi e tasse sulle permanenze in porti svedesi di navi straniere per favorire l’industria navale svedese. Si crearono inoltre compagnie di commercio privilegiate sul modello delle analoghe istituzioni inglesi. Questa politica ebbe un discreto risultato, tanto è vero che per un cinquantennio gli Svedesi riuscirono a controllare poco meno della metà del commercio baltico. In Olanda si adottò la stessa politica per quanto riguardava le compagnie di commercio, ma contemporaneamente si applicarono politiche che prefiguravano il liberismo, situazione ovvia in un paese che vivendo di commercio aveva il massimo interesse a non porre ostacoli, anzi ad eliminarli per favorire anche il suo ruolo di intermediario tra stati differenti. Anche la Spagna recepì alcuni tratti delle politiche mercantiliste, in particolar modo durante il regno del francese Filippo V. Tra il 1717 e il 1719 vennero emanati alcuni editti reali (cédulas) che proibirono la vendita di tessuti e abiti confezionati asiatici, e nel 1726 si giunse a proibire l’importazione di panni di cotone e seta. Lo Stato, sull’esempio francese, creò le Manifacturas Reales di beni di lusso e sostenne le imprese private a rischio di fallimento, come le seterie di Murcia e le fabbriche tessili di Ezcaray. Contem- poraneamente vennero istituite diverse compagnie privilegiate per la produzione e l’esportazione, la più importante delle quali fu la Compañía de Zarza la Mayor, attiva in Estremadura e incaricata del- la vendita in Portogallo di panni di lana e seta. Nessuna di queste compagnie durò a lungo, e nem- meno questi provvedimenti poterono fermare la decadenza spagnola.
Bibliografia
[modifica wikitesto]N. Hampson, Storia e cultura dell’Illuminismo, Bari, Laterza, 1969. R. Romano, Tra due crisi: l’Italia del Rinascimento, Torino, Einaudi, 1971. B. Behrens, Governo e società e H. Van der Wee, L’industria, in E.E. Rich e C.H. Wilson (a cura di), Storia economica Cambridge, V: Economia e società in Europa nell’Età Moderna, Torino, Ei- naudi, 1978. P. Deyon, Teoria e pratica del mercantilismo e M. Morineau, Il secolo, in P. Léon (a cura di), Sto- ria economica e sociale del mondo, II/1: Difficoltà dello sviluppo 1580/1730, Bari, Laterza, 1980. J. Griziotti Kretschmann, Mercantilismo, in Grande Dizionario Enciclopedico, XIII, Torino, UTET, 1989.
Cronologia originale
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Errore\vandalismo
[modifica wikitesto]Ciao, alla terza riga nel paragrafo descrizione si parla di bambe ufficiali.. non ha senso, credo che sia lo stupido scherzo di qualcuno. Grazie mille a chiunque lo correggerà.--Ginogiano (msg) 13:21, 12 gen 2013 (CET)
Pratica moderna
[modifica wikitesto]Tale sezione, secondo me, va cancellata perche': 1 incorretta a livello logico, il testo inizia con "Come dimostrano i dati recenti sul surplus il mercantilismo di fatto è ancora praticato dalla Germania." ovvero che un paese sia in surplus non implica che pratichi il mercantilismo; 2 l'unico riferimento che associa la parola mercantilismo a germania e' di economiaepolitica.it, mi sembra poco autorevole, come d'altro canto e' poco autorevole anche keynesblog.com (il quale tuttavia non fa l'associazione mercantilismo-germania); 3 le previsioni di kaldor e krugman non riguardano il mercantilismo ma i problemi legati ad una moneta comune o ad un cambio fisso.
Aggiungo che la voce in questione è pure quanto mai parziale, non cita la Cina, come esempio di mercantilismo moderno. Direi che si tratta di una voce volutamente "Biased"
Collegamenti esterni modificati
[modifica wikitesto]Gentili utenti,
ho appena modificato 1 collegamento/i esterno/i sulla pagina Mercantilismo. Per cortesia controllate la mia modifica. Se avete qualche domanda o se fosse necessario far sì che il bot ignori i link o l'intera pagina, date un'occhiata a queste FAQ. Ho effettuato le seguenti modifiche:
- Aggiunta del link all'archivio https://web.archive.org/web/20160329120826/https://www.cigionline.org/videos/joseph-stiglitz-mercantilism-doomed-fail per https://www.cigionline.org/videos/joseph-stiglitz-mercantilism-doomed-fail
Fate riferimento alle FAQ per informazioni su come correggere gli errori del bot
Saluti.—InternetArchiveBot (Segnala un errore) 11:20, 25 mar 2018 (CEST)