L'asserzione è un atto linguistico che presenta il contenuto di un enunciato come vero.[1]
Già gli stoici distinguevano tra il contenuto di pensiero espresso da un enunciato, che può essere oggetto di asserzione, ma anche di desiderio, dubbio, interrogazione, e il giudizio sulla verità di quel contenuto. Gottlob Frege ha poi distinto il giudizio sulla verità di un contenuto espresso e l'atto che comunica all'interlocutore questo giudizio (atto che è appunto l'asserzione). Per questo, Frege introdusse un segno specifico che distinguesse p (il contenuto proposizionale) e '⊢p' ('asserzione di p'). Per Wittgenstein [1922], l'asserzione ha un valore psicologico, ma non linguistico.[1]
La teoria degli atti linguistici in genere ammette la distinzione tra enunciare e asserire (in "Se p, allora q", l'enunciato p non è asserito). Nelle forme iniziali della teoria di Austin, le asserzioni non venivano peraltro distinte dagli enunciati constativi, ma in Austin [1962], alle asserzioni vengono attribuite particolari condizioni di felicità (tra queste, le presupposizioni di esistenza degli oggetti del discorso).[1]
Nella teoria di Searle [1969], l'asserzione è intesa come atto illocutorio.[1]
Note
[modifica | modifica wikitesto]Bibliografia
[modifica | modifica wikitesto]- Gian Luigi Beccaria (a cura di), Dizionario di linguistica e di filologia, metrica, retorica, Torino, Einaudi, 2004, ISBN 978-88-06-16942-8.
- John L. Austin, How to Do Things with Words: The William James Lectures delivered at Harvard University in 1955, Oxford, Clarendon Press, 1962, ISBN 0-674-41152-8.
- John Searle, Speech Acts. An Essay in the Philosophy of Language, Cambridge, Cambridge University Press, 1969, ISBN 0-521-09626-X.
- Ludwig Wittgenstein, Tractatus Logico-Philosophicus, traduzione di F.P. Ramsey e C.K. Ogden, Londra, Kegan Paul, 1922.