Coordinate: 37°56′29.22″N 12°49′59.05″E

Tempio di Segesta

Da Teknopedia, l'enciclopedia libera.
Vai alla navigazione Vai alla ricerca
Voce principale: Segesta.
Il tempio

«È di stile dorico. Possiede trentasei colonne, contando anche quelle degli angoli, e cinque per l'atrio anteriore e altrettante per quello posteriore. Le colonne sono appoggiate a due basi che hanno due palmi napoletani di altezza e otto di larghezza. Ogni colonna ha venticinque palmi di circonferenza; essa si rastrema in maniera diversa da quella di Paestum, di Girgenti e di Selinunte, aggiungendosi al capitello per mezzo di un intaglio. Non ha canoni come quelle di Girgenti e di Paestum, cosicché si potrebbe convenire sulla base di questo genere di costruzione, che il Tempio di Segesta è strutturalmente posteriore agli altri.»

«La posizione del tempio è sorprendente: al sommo d'una vallata larga e lunga, in vetta a un colle isolato e tuttavia circondato da dirupi, esso domina una vasta prospettiva di terre.»

Pianta del tempio

Il tempio di Segesta è un tempio elimico dell'antica città di Segesta sito nell'area archeologica di Calatafimi Segesta, comune italiano della provincia di Trapani in Sicilia.

Il tempio, a volte denominato "Tempio Grande", è stato costruito durante l'ultimo trentennio del V secolo a.C.,[1] sulla cima di una collina a ovest della città, fuori dalle sue mura. Si tratta di un grande tempio periptero esastilo (ossia con sei colonne sul lato più corto, non scanalate). Sul lato lungo presenta invece quattordici colonne (in totale 36 quindi, alte 10 metri). L'attuale stato di conservazione presenta l'intero colonnato della peristasi completo di tutta la trabeazione. Nonostante gli elementi costruttivi e le proporzioni della costruzione si riferiscano con chiarezza al periodo classico dell'architettura greca, il tempio presenta aspetti peculiari sui quali la storiografia non esprime pareri unanimi.

Il primo elemento di dibattito è costituito proprio dalla sua natura di espressione artistica pienamente ellenica, aggiornata alle maggiori espressioni dell'arte della madrepatria ed in particolare dell'Attica, ma realizzata in una città degli Elimi, una popolazione di origine anatolica[2], ma stanziata in Sicilia molto prima dell'arrivo dei coloni greci nella vicina Selinunte, con la quale Segesta fu perennemente in conflitto. Gli storici ipotizzano che, grazie agli scambi commerciali, la città elima abbia raggiunto nel corso del V secolo a.C. un alto grado di ellenizzazione, tale da poter consapevolmente importare un sofisticato modello artistico come il tempio dorico periptero che grazie alla canonizzazione di dimensioni e proporzioni si prestava ad una larga diffusione. Inoltre è probabile che il progettista e le maestranze impiegate fossero greche, provenienti da una delle vicine città.[3][4]

Il secondo aspetto che ha sempre colpito molto gli storici è l'assenza di vestigia della cella all'interno del colonnato, che invece è uno dei meglio conservati del mondo greco. Questo ha fatto pensare ad un tempio ipetro cioè ad un luogo sacro privo di copertura e di cella e legato a riti indigeni. In alternativa si è pensato ad una cella interamente a struttura lignea, come tutta la copertura, e quindi andata persa.[3] Negli anni '80 sono state trovate tracce della fondazione della cella, interrate all'interno del tempio, insieme a tracce di costruzioni precedenti (il che farebbe pensare che il tempio fosse stato costruito su un luogo sacro ancora più antico).[5] Queste caratteristiche hanno fatto nascere l'ipotesi, tra le altre, che il tempio non sia mai stato terminato, a causa probabilmente di avvenimenti bellici che coinvolsero a lungo la città e che la cella e la copertura non siano mai state realizzate.[6] Tale ipotesi è avvalorata secondo alcuni anche dalla mancanza di scanalature delle colonne e dalla presenza, soprattutto sui blocchi del crepidoma, di "bugne" cioè di protuberanze destinate a proteggere il blocco durante la messa in opera che sarebbero state scalpellate via in fase di rifinitura[5]. Altri le interpretano come caratteristiche connesse alla matrice culturale indigena elima e quindi non greca.

Secondo l’ipotesi del tempio incompleto, questo avrebbe quindi dovuto avere un'ampia cella preceduta da un pronao distilo in antis ed un simmetrico opistodomo sul retro. Il colonnato, con interassi uguali su tutti i lati, presenta la canonica doppia contrazione degli intercolumni terminali per risolvere il conflitto angolare oltre ad altri tipici accorgimenti ottici come la curvatura delle linee orizzontali e alla concezione decorativa del fregio che perde, almeno in parte la sua dipendenza dal colonnato. Tali caratteristiche mostrano una derivazione dai modelli evolutivi attici della fine del V secolo a.C. ed in particolare dal tempio degli Ateniesi a Delo, ai quali rimandano anche gli elementi decorativi.[3][6] Gli unici aspetti riferibili ancora allo stile severo sono le proporzioni allungate con 6x14 colonne in luogo delle canoniche 6x13 (doppio quadrato),[6] e le grandi dimensioni in un'epoca in cui i templi divenivano più piccoli.

Nel XVIII secolo il tempio fu oggetto di un primo restauro da parte del regio architetto Carlo Chenchi. Fu visitato da Goethe e divenne una delle mete del Grand Tour e una della cause della riscoperta dell'architettura greca e del dorico che fu alle radici del neoclassicismo. Nell'aprile del 2020 è stata annunciata dalla direttrice del Parco Archeologico di Segesta l'esistenza presso la Biblioteca comunale di Calatafimi di un'epigrafe dedicatoria ritrovata nei pressi del tempio che fa propendere per la dedica del tempio ad Afrodite Urania.[7]

Presso la Biblioteca Comunale di Calatafimi è oggi conservata una base rettangolare in calcarenite, lunga 75 centimetri e alta 21, che reca incisa una iscrizione in greco, conservatasi per intero, databile al II secolo a.C.: “Diodoro, figlio di Tittelo, Appeiraios (ha dedicato la statua di) sua sorella Minyra, (moglie) di Artemon, che è stata sacerdotessa, ad Afrodite Urania”. L’epigrafe proviene dalle vicinanze del tempio di Segesta e ne indica la divinità venerata. Già conosciuta nel Seicento l’epigrafe subì vari spostamenti, fino a essere murata nella casa del canonico Francesco Avila, come già noto (da Marrone) nel 1827. Si tratta di una epigrafe, perfettamente “compatibile” con un contesto di un santuario, di carattere onorario in forma di dedica alla divinità, utilizzata come base di statua di sacerdotessa eretta da parenti o amici: d'altronde i nomi di Diodoro e Tittelo sono attestati comunemente a Segesta. Minura era quindi sacerdotessa di Afrodite Urania a Segesta.

  1. ^ La datazione, generalmente accettata si basa sull'analisi stilistica:Dieter Mertens, Città e monumenti dei greci d'Occidente, 2006, ISBN 8882653676, pp.408-414
  2. ^ Elimi, in Enciclopedia Italiana, XIII, p. 807, Roma, Istituto dell'Enciclopedia Italiana. URL consultato l'8 maggio 2020.
  3. ^ a b c Dieter Mertens, op. cit., 2006, pp.408-414
  4. ^ Enzo Lippolis, Monica Livadiotti, Giorgio Rocco, Architettura greca: storia e monumenti del mondo della polis dalle origini al V secolo, 2007, ISBN 8842492205, pp.483-488
  5. ^ a b Dieter Mertens, op. cit., 2006, p.408-414
  6. ^ a b c E. Lippolis, M. Livadiotti, G. Rocco, Op. cit, 2007, pp.483-488
  7. ^ L'archeologia rivoluzione silenziosa: c'è una nuova scoperta intorno al tempio di Segesta, su Balarm.it, 19 aprile 2020. URL consultato il 14 ottobre 2023.
  • Dieter Mertens, Città e monumenti dei greci d'Occidente, 2006, ISBN 8882653676
  • Enzo Lippolis, Monica Livadiotti, Giorgio Rocco, Architettura greca: storia e monumenti del mondo della polis dalle origini al V secolo, 2007, ISBN 8842492205
  • Michele Cometa, Il romanzo dell'architettura, 1999, ISBN 9788842057796

Voci correlate

[modifica | modifica wikitesto]

Altri progetti

[modifica | modifica wikitesto]