Lex Fufia Caninia
Lex Fufia Caninia | |
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Senato di Roma | |
Nome latino | Lex Fufia Caninia |
Autore | Impero |
Anno | 2 a.C. |
Leggi romane |
Nell'antica Roma, la lex Fufia Caninia del 2 a.C. fu una delle leggi che le assemblee romane fecero passare per richiesta di Ottaviano Augusto. La legge prende il nome da Lucio Caninio Gallo e da Gaio Fufio Gemino, consoli suffecti appunto nell'anno della promulgazione della legge.[1] Nelle fonti è spesso attestata con il nome erroneo di Lex Furia Caninia.
Questa legge come la più tarda lex Aelia Sentia pose delle limitazioni alla manomissione degli schiavi.
Si prevedeva infatti, che il padrone per testamento potesse liberare i suoi schiavi tramite manumissione ma in un numero limitato. Questa cifra era ottenuta con una proporzione rispetto al numero totale di schiavi posseduti dal padrone. In ogni caso non si poteva mai superare il numero di 100. Nel caso specifico un padrone che possedeva tre schiavi avrebbe potuto liberarne solamente due; se ne aveva da quattro a dieci avrebbe potuto liberarne solo la metà; con un numero di schiavi tra undici e trenta solo un terzo, e così via.
Secondo le Institutiones di Gaio la legge stabiliva:
«42. Praeterea lege Fufia Caninia certus modus constitutus est in servis testamento manumittendis.
43. Nam ei, qui plures quam duos neque plures quam decem servos habebit, usque ad partem dimidiam eius numeri manumittere permittitur; ei vero, qui plures quam X neque plures quam XXX servos habebit, usque ad tertiam partem eius numeri manumittere permittitur. At ei, qui plures quam XXX neque plures quam centum habebit, usque ad partem quartam potestas manumittendi datur. Novissime ei, qui plures quam C habebit nec plures quam D, non plures manumittere permittitur quam quintam partem; neque plures quam D habentis ratio habetur, ut ex eo numero pars definiatur, sed praescribit lex, ne cui plures manumittere liceat quam C. Quod si quis unum servum omnino aut duos habet, ad hanc legem non pertinet, et ideo liberam habet potestatem manumittendi.
44. Ac ne ad eos quidem omnino haec lex pertinet, qui sine testamento manumittunt. Itaque licet iis, qui vindicta aut censu aut inter amicos manumittunt, totam familiam suam liberare, scilicet si alia causa non impediat libertatem.
45. Sed quod de numero servorum testamento manumittendorum diximus, ita intellegemus, ne umquam ex eo numero, ex quo dimidia aut tertia aut quarta aut quinta pars liberari potest, pauciores manumittere liceat quam ex antecedenti numero licuit. Et hoc ipsa ratione provisum est: Erat enim sane absurdum, ut X servorum domino quinque liberare liceret, quia usque ad dimidiam partem eius numeri manumittere ei conceditur, XII servos habenti non plures liceret manumittere quam IIII; at eis, qui plures quam X neque *
46. Nam et si testamento scriptis in orbem servis libertas data sit, quia nullus ordo manumissionis invenitur, nulli liberi erunt, quia lex Fufia Caninia, quae in fraudem eius facta sint, rescindit. Sunt etiam specialia senatus consulta, quibus rescissa sunt ea, quae in fraudem eius legis excogitata sunt.»
«42. Inoltre dalla legge Fufia Caninia venne limitata la facoltà di manumettere gli schiavi nel testamento.
43. Imperciocché è permesso a chi ha più di due schiavi, ma non più di dieci, di liberarne la metà. Quegli che ne ha più di dieci, e meno di trenta, può liberarne la terza parte; chi ne ha più di trenta, non più di cento, il quarto; e finalmente se il padrone ha più di cento schiavi ma non oltre cinquecento, non può liberarne più della quinta parte; qualunque poi fosse il numero di schiavi posseduti, la Legge vieta a chiunque di liberarne più di cento. Il proprietario di uno, o di due schiavi, è padrone di manumetterli.
44. Questa legge non concerne queglino che hanno libertà fuori di testamento: perciò è concesso ai manumissori per vindicta, per censo, o fra amici, di liberare tutti i propri schiavi, semprecché non vi osti un qualche altro legittimo impedimento.
45. Ma quanto al numero degli schiavi che si possono manumettere per testamento, deve intendersi che quegli che può liberarne la metà, il terzo, il quarto, o il quinto, possa dappoi scioglierne ancora, locché da questa legge è voluto; infatti era bene assurdo che fosse acconsentito al padrone di dieci schiavi dare la libertà a cinque, quale metà di quanti ne possedeva, e che poi fosse vietato al padrone di dodici liberarne più di quattro. Quanto a coloro che avessero più che dieci schiavi [... lacuna del testo di una pagina].
46. Se in un testamento i nomi degli schiavi liberati sono scritti in forma di circolo, siccome non è possibile distinguere i primi scritti dagli ultimi, nessuno di essi ottiene la libertà, attesoché la Legge Fufia Caninia rescinde tutto ciò che fosse stato fatto in di lei frode. Hannovi anche senatoconsulti speciali che annullano quanto sia stato stabilito a defraudo di questa legge.»
Secondo Svetonio, Augusto pose regole precise sull'affrancamento spinto dalla convinzione personale che fosse «importante conservare la purezza della razza romana e preservarla da ogni mescolanza con sangue straniero e servile».[2] Adam Ziólkowski, tuttavia, ritiene che l'intenzione attribuitagli da Svetonio «sembra essere una proiezione dell'ossessione del ceto al quale apparteneva lo scrittore».[3]
Ponendo queste limitazioni, è possibile che Augusto volesse porre un freno alla leggerezza con cui venivano affrancati gli schiavi, criticata a quell'epoca da una parte dell'opinione pubblica (compreso lo storico Dionigi di Alicarnasso in una digressione delle sue Antichità romane)[4] in quanto molti degli schiavi affrancati erano considerati malviventi[5] e dunque avrebbero potuto cagionare disordini (inoltre concedere la libertà a schiavi che non se la meritavano in quanto macchiatisi di gravi crimini sarebbe risultato immorale e in contrasto con il mos maiorum). Per quanto riguarda le manumissioni testamentarie, secondo Dionigi di Alicarnasso i padroni le concedevano spinti dal desiderio di essere ben ricordati dopo la loro morte, non curandosi del fatto che tra gli schiavi liberati vi fossero dei malviventi; tuttavia, «la maggioranza delle persone, nonostante tutto, considerando queste macchie che possono a stento essere lavate dalla città, sono addolorate e condannano il costume, considerando indecoroso che una città dominante che aspira a governare il mondo intero dovrebbe rendere cittadini siffatti uomini».[6] Dionigi di Alicarnasso, che scriveva poco prima della promulgazione della Lex Fufia Caninia, esortò i magistrati romani (censori o consoli) a prendere provvedimenti su questa questione, per esempio conducendo inchieste sulle persone liberate ogni anno in modo da suddividerle in due categorie: quelli ritenuti degni della cittadinanza romana avrebbero potuto rimanere nell'Urbe, mentre quelli ritenuti indegni e corrotti sarebbero stati espulsi e inviati in qualche colonia.[7] Poco tempo dopo Augusto prese provvedimenti sulla questione ponendo limiti alle manumissioni testamentarie con la Lex Fufia Caninia e all'acquisizione della cittadinanza romana da parte dei liberti con la Lex Aelia Sentia.
D'altro canto è il caso di rilevare che la legge non poneva limitazioni analoghe alle liberazioni disposte in vita, dimostrandosi così non del tutto adeguata a prevenire i problemi di ordine pubblico sopra menzionati. Fu così abrogata da Giustiniano I nel 528 insieme ad altre leggi sulla schiavitù, anche perché considerate ormai anacronistiche:
«Imperator Justinianus
Servorum libertates in testamento relictas tam directas quam fideicommissarias ad exemplum inter vivos libertatum indistincte valere censemus, lege fufia caninia de cetero cessante nec impediente testantium pro suis servis clementes dispositiones effectui mancipari. * iust. a. menae pp. * a 528 d. k. iun. constantinopoli dn. iustiniano pp. a. ii cons.»
«Imperatore Giustiniano
Vogliamo che le libertà lasciate ai servi per testamento sia dirette che fedecommissarie indistintamente siano valide ad esempio delle libertà lasciate con atto tra vivi, dovendo peraltro non ostare la legge Fufia Caninia, la quale non deve impedire che le umane disposizioni dei testatori in favore dei loro servi abbiano effetto.
Giustiniano a Mena prefetto del pretorio. Data il 1° di giugno, secondo consolato dell'Augusto Giustiniano [528].»
«DE LEGE FURIA CANINIA SUBLATA.
Lege Furia Caninia certus modus constitutus erat in servis testamento manumittendis. quem quasi libertatibus impedientem et quodammodo invidam tollendam esse censuimus; cum satis fuerat inhumanum, vivos quidem licentiam habere totam suam familiam libertate donare, nisi alia causa impediat libertati, morientibus autem huiusmodi licentiam adimere.»
«Per la Lex Fufia Caninia era stabilito un modo determinato nella manomissione dei servi per testamento, legge che credemmo doversi abrogare come quella che pone un impedimento alla libertà, e che in certa maniera si rende odiosa; mentre è abbastanza inumano che si possa in vita dare la libertà a tutti i servi, purché qualche altra causa non impedisca la libertà, e che tale facoltà poi si tolga in punto di morte.»
Note
[modifica | modifica wikitesto]- ^ La data della legge è stata dedotta da Gatti sulla base della coppia consolare L. Caninius Gallus e C. Fufius Camillus rivelata da un'ara marmorea scoperta a Roma nell'aprile 1906; tale ara riportava come data il sesto anno del ristabilimento del culto dei lares augusti, dunque il 2 a.C. Cfr. Gatti, La vera data della Lex Fufia Caninia rivelata da un'iscrizione in Bull. dell'Ist. di D. Rom., XVIII, p. 115.
- ^ Svetonio, Augusto, 40. "Magni praeterea existimans sincerum atque ab omni colluvione peregrini ac servilis sanguinis incorruptum servare populum [...]".
- ^ Adam Ziólkowski, Storia di Roma, Milano, Bruno Mondadori, 2000, p. 303, ISBN 978-8842497011.
- ^ «Il passo [di Dionigi di Alicarnasso] è indubbiamente un'eco di animate discussioni su di un grave problema di attualità [...] ] » ( Emilio Gabba, Roma arcaica: storia e storiografia, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 2000, p. 122, ISBN 9788887114683.).
- ^ « [...] alcuni che avevano fatto una fortuna con il brigantaggio, le rapine, la prostituzione e ogni altro mezzo spregevole, comprano la loro libertà con il denaro così acquisito e immediatamente diventano Romani; altri, che erano stati confidenti e complici dei loro padroni in avvelenamenti, ricevono da essi questo favore come loro ricompensa» (Dionigi di Alicarnasso, Antichità romane, IV, 24.4-5).
- ^ Dionigi di Alicarnasso, IV, 24.6.
- ^ Dionigi di Alicarnasso, IV, 24.8.