Utente:Falco-85/Sandbox1

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L'Irredentismo italiano fu quel movimento nato nella seconda metà del XIX secolo che rivendicava i territori considerati italiani rimasti fuori dai confini del Regno d'Italia dopo il 1870. L'espressione terre irredente fu usata per la prima volta da Matteo Renato Imbriani nel 1877. Il movimento facente capo a Imbriani venne definito spregiativamente "irredentismo" nella stampa austriaca. Gli irredentisti italiani chiedevano l'unione al Regno del Trentino e della Venezia Giulia (sinteticamente di "Trento e Trieste") quale "completamento" del processo risorgimentale. Si trattò quindi di un movimento dal carattere antiaustriaco, anche se tra i territori "irredenti" c'erano pure la Corsica e Nizza - appartenenti alla Francia - l'arcipelago di Malta (dominio britannico) e la Svizzera italiana. Rispetto alle originarie matrici risorgimentali, col trascorrere dei decenni si sviluppò - specie in età giolittiana - anche un irredentismo di carattere "nazionalista". Quest'ultimo accentuò il discorso sui "confini naturali" (specie riguardo all'Alto Adige e alla richiesta del confine del Brennero) nonché quello sulle rivendicazioni adriatiche, con la richiesta anche di Fiume e della Dalmazia. Il Trentino, l'Alto Adige, Gorizia, Trieste, l'Istria (queste ultime tre componevano la "Venezia Giulia"), Fiume e la Dalmazia furono quindi le "terre irredente" rivendicate genericamente dagli interventisti dopo lo scoppio della prima guerra mondiale, al termine della quale la quasi totalità dei territori fu annessa al Regno d'Italia. Nel corso della guerra furono alcune centinaia i trentini e un paio di migliaia i giuliani e i dalmati che disertarono l'esercito austriaco per combattere con il Regio Esercito Italiano la guerra di redenzione. Tra le figure dei martiri irredenti, oltre al triestino Guglielmo Oberdan (impiccato dagli austriaci nel 1882), ci furono - durante la guerra del 1915-18 - i trentini Cesare Battisti e Damiano Chiesa, gli istriani Nazario Sauro e Fabio Filzi e il dalmata Francesco Rismondo.

L'irredentismo continuò poi nel periodo fascista. Specie a partire dagli anni '30 la Corsica, Nizza, la Savoia e Malta (oltre al canton Ticino) comparivano nel gruppo di rivendicazioni territoriali sbandierate dal regime.

Con la disfatta italiana nel secondo conflitto mondiale non si parlò ovviamente più di "irredentismo" nell'Italia del secondo dopoguerra, almeno strettamente. Gli unici a proporre un discorso apertamente irredentista furono i neofascisti e i monarchici. Questo neoirredentismo reclamava un futuro ritorno all'Italia dei territori ceduti alla Jugoslavia col trattato di pace e interessati dall'esodo istriano-fiumano-dalmata.

Le origini dell'irredentismo italiano affondano nel problema delle cosiddette "terre periferiche" d'Italia durante il XIX secolo (). Già durante il Risorgimento ci si era posti in Italia il nodo del "fin dove" dovesse arrivare il futuro Stato nazionale italiano. Dopo la proclamazione del Regno d'Italia (17 marzo 1861) la questione venne ancora più alla ribalta: oltre infatti al problema del Veneto e a quello di Roma e dello stato pontificio, c'erano altre terre considerate parte della nazione italiana. Esse erano: il Trentino, Gorizia, Trieste e l'Istria appartenenti sempre all'Austria, la Corsica appartenente alla Francia, l'arcipelago di Malta, dominio britannico, e la Svizzera italiana. Sempre alla Francia era da poco passata la ex contea di Nizza (assieme alla Savoia) nell'ambito dei plebisciti della primavera del 1860, con cui si era decisa la sorte dell'Italia centrale.

I nodi di questi territori non erano visti tutti allo stesso modo. Soprattutto a Malta e al canton Ticino quasi nessun autore pensava in Italia (). Un po' diverso il discorso della Corsica, già teatro dell'azione di Pasquale Paoli, che alcuni storici sarebbe stato visto come un "precursore" del Risorgimento (). Tutt'altro ovviamente il caso Nizza, patria di Giuseppe Garibaldi, ma un tasto su cui pochi battevano vista la posizione di gran parte dei patrioti italiani verso la Francia.

Diverso era invece il discorso riguardante le altre terre in mano austriaca. Circa il Trentino l'opinione comune era la separazione del "Tirolo italiano" (come si diceva all'epoca) dal "Tirolo tedesco" (), su una linea attorno alla chiusa di Salorno. Più articolato il discorso sul confine orientale. Su questo infatti, per quanto la tradizione italiana ponesse i limiti dell'Italia al Quarnaro, le opinioni erano divergenti. C'era chi, come Terenzio Mamiani, rivendicava l'Istria alla futura Italia. C'era chi, invece, pensava all'Isonzo come frontiera, visto il popolamento intricato di italiani e slavi ad est del fiume e visti soprattutto gli interessi germanici su Trieste. E c'era poi chi, come il patriota friulano Pacifico Valussi, pensava nel 1848-49 a fare di Trieste e dell'Istria, e anche della Dalmazia (), una sorta di "zona cuscinetto" tra Italia e Slavia (). La questione fu affrontata definitivamente nei mesi in cui doveva realizzarsi l'unità d'Italia. Il problema del costituirsi in nazioni indipendenti dell'Impero asburgico dei popoli tedesco e magiaro, nonché il risveglio dei popoli slavi, ponevano per molti la necessità per l'Italia di chiarire il suo futuro confine nordorientale. Nel frattempo, anche presso la borghesia triestina e quella istriana, si venivano esprimendo nette posizioni filoitaliane (). In quest'ambito quindi si iniziò a pensare a un futuro confine per il Regno d'Italia che includesse, oltre al Trentino (), anche Trieste e l'Istria, viste come "sentinelle avanzate" della civiltà italiana (). La questione del Trentino e di Trieste e l'Istria, era vista come un tutt'uno con la questione del Veneto ()().

La guerra del 1866

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  • Gioacchino Volpe, Italia moderna, vol. 1. 1815-1898, Firenze, Sansoni, 1973.