Utente:Lamberto Barbadoro/Sandbox

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La battaglia del Ponte Rotto fu combattuta il 6 marzo 1797 tra le truppe francesi e gli insorgenti laurentini a San Lorenzo in Campo un comune in provincia di Pesaro e Urbino. La battaglia si concluse clamorosamente con la vittoria della coalizione dei cittadini di: San Lorenzo in Campo, Montalfoglio, San Vito sul Cesano, Montesecco, Monterolo, e Castelleone di Suasa. [[]]

Le truppe francesi guidate da Napoleone Buonaparte scesero in Italia nella primavera del 1796 ed a seguito di alcune brillanti vittorie riuscirono ad occupare tutta la parte settentrionale della penisola. Alla fine di gennaio del 1797, i soldati francesi entrarono nello Stato della Chiesa ricevendo solo una breve resistenza da parte delle truppe pontificie nei pressi di Faenza. Il legato pontificio Ferdinando Maria Saluzzo scappò lasciando città e paesi a decidere da soli. Napoleone Buonaparte entrò a Pesaro il 5 febbraio 1797 e tutti i comuni della valle del Cesano, compreso San Lorenzo in Campo, inviarono una propria delegazione per il giuramento di fedeltà alla repubblica francese. Il 19 febbraio fu firmato il trattato di Tolentino in cui si sancì il ritorno dei territori occupati dai francesi, alla Santa Sede, nonostante ciò le truppe napoleoniche rimasero fino ad aprile. Gran parte della borghesia e molti intellettuali, nelle Marche, appoggiarono velatamente ed in alcuni casi apertamente i francesi; restarono invece fedeli al Papa le popolazioni rurali, sia per l’impreparazione culturale, che per il radicale attaccamento alle vecchie istituzioni.

La propaganda clericale dipingeva gli invasori come belve assetate di sangue, violentatori, stupratori, nemici di Dio e della famiglia e parole come libertà ed uguaglianza, propagandate dai francesi, erano incomprensibili sia per il clero, abituato da secoli al quieto vivere, sia per i sudditi, che pur patendo fame e privazioni, si adeguavano con bonaria compiacenza alle gerarchie incommutabili e perenni, che prevedevano da sempre che nobili, ricchi e preti comandassero ed in genere avessero più diritti del popolino composto nelle Marche da contadini, che per lo più lavoravano le terre dei nobili, da artigiani e da commercianti[1].

Con l’arrivo dei commissari francesi nelle città e nei paesi delle Marche la sollevazione popolare avvenne un po' dappertutto. Il malcontento crebbe maggiormente quando i militari iniziarono a disarmare la popolazione, a requisire le armi, a rubare gli argenti nelle chiese, gli animali, le vettovaglie e ogni altro genere di cose necessarie alle truppe. Queste prime azioni dei francesi invasori furono le principali cause della ribellione. La rapina fu tanto rapida quanto brutale. I furti e le requisizioni, l’abbattimento dei simboli pontifici, l’obbligo della coccarda, il divieto di portare l’abito ecclesiastico furono azioni e provvedimenti che incentivarono la sollevazione popolare.

L'insorgenza antigiacobina nella val Cesano

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I laurentini depositarono su ordine degli occupanti le armi “nel pubblico Palazzo”, ma molti di loro che non vedevano di buon occhio le truppe francesi, ricordavano le indicazioni e le raccomandazioni del clero che invitavano i cittadini ad impugnare le armi nel caso fossero arrivate le truppe francesi[2]. I più intrepidi dopo aver convinto molti cittadini alla ribellione, forzarono le porte del palazzo municipale e ripresero “con gran furore” le armi[3].

Il 25 febbraio 1797, i rivoltosi catturarono due ufficiali dell’esercito francese, il capitano Merlini ed il tenente Lanzi, arrivati in paese a chiedere sottomissione al nuovo governo, a raccogliere, fieno, paglia e biada per la cavalleria francese e a sequestrare armi. Sarebbero stati certamente uccisi se non fosse intervenuto l’arciprete Pacifico Mariotti. I due furono fatti prigionieri e poi fu fatto prigioniero anche il cavaliere d’Ambrois ritenuto, un gran giacobino e commissario della Repubblica francese. Furono rialzati tutti gli stemmi del sommo pontefice, della Santa Sede, del monsignor presidente di Urbino e del monsignor commendatario. Fu inviato un messo al generale pontificio Michele Colli, che si credeva a Foligno, per richiedere soldati o ufficiali, il messo tornò a San Lorenzo, poiché a causa della molta neve caduta, non riuscì a superare l’Appennino. Dopo pochi giorni la ribellione divampò in tutta la vallata del Cesano e si estese soprattutto nei centri circostanti. Si unirono ai laurentini gli abitanti di San Vito, Sant’Andrea, Monterolo, Montesecco, Fratte Rosa, Montalfoglio, Castelleone di Suasa, che con una solenne dichiarazione si impegnarono tutti a combattere i francesi e diedero vita a una “truppa coalizzata”, a capo della quale posero il ventenne laurentino Giovan Battista Duranti, ex ufficiale delle milizie pontificie, insieme ad Antonio Sebbri di Monterolo, esponente di una antica famiglia locale. L’aspetto più importante è che per la prima volta nella valle del Cesano fra dieci terre e castelli, si firmò un patto di unione.

Il 28 febbraio circa 200 uomini di San Lorenzo in Campo e Castelleone, prima marciarono su Castelvecchio, dove requisirono venti carri di grano,[4], raggiunsero Mondavio che fu occupata tra la costernazione degli abitanti e del vescovo fanese mons. Antonio Gabriele Severoli, che cercava disperatamente di placare gli animi. Presero le armi sequestrate alla popolazione, rialzarono lo stemma pontificio e da li controllavano la strada per Senigallia[5].


I rivoltosi in armi, si radunarono in 2000 a San Lorenzo in Campo e costituirono una vera e propria lega, come si legge nella lettera che i suoi firmatari inviarono alla città di Pergola per spiegare le ragioni della sommossa e per cercare di convincere gli abitanti di quella città ad aggregarsi a loro. “ …. Uniti in amichevole e vera lega con tutti gli altri popoli vicini, emulando le determinazioni di altre savie città e terre, abbiamo positivamente stabilito di procurare la salvezza della religione, del trono, delle proprietà e della vita con l’impugnare le armi contro la ribelle Francia”[6], ma da Pergola invece giunse l'invito a mantenere la calma, poiché era già arrivata la notizia del trattato di Tolentino e che quindi non c’era motivo di rivolta, perché i territori occupati dai francesi sarebbero stati restituiti al papa. I pergolesi credendo di ottenere dai francesi una supremazia territoriale sui comuni limitrofi e rivendicando le proprie tradizioni nobili e civiche a fronte di un rivale comune limitrofo non appoggiarono gli insorgenti. Il marchese Francesco Vennarucci Lanzoni di Pergola, in data 27 agosto 1797, in una sua lettera definì San Lorenzo in Campo “miserabile, disperato paese”[7].I ribelli, credendo che la notizia del trattato di Tolentino, sarebbe stata diffusa ad arte dai francesi e dai giacobini per farli desistere dalla sommossa, arrivarono ad una azione di forza. Il 4 marzo 150 rivoltosi che si erano impadroniti di armi, munizioni e viveri, già requisiti nei paesi vicini per le truppe francesi, contrariati dal cauto atteggiamento dei pergolesi entrarono in Pergola, occuparono il municipio ed invitarono la popolazione alla loro stessa causa. I magistrati locali riuscirono a convincere i rivoltosi della veridicità della notizia dell’avvenuta firma del trattato di pace, tanto da far apparire conveniente e necessario deporre le armi e tentare una mediazione con i francesi. Della mediazione fu incaricato un ecclesiastico l’arcidiacono di Pergola Francesco Ferrante Ganganelli, che si recò a Pesaro per trattare con il generale comandante delle Romagne e del ducato d’Urbino. Intanto a Senigallia, dove si trovava il corpo d’occupazione, era giunto l’annuncio della scoppiata rivolta, il Commissario Francesco Dorel per sedare la sommossa inviò a San Lorenzo in Campo un contingente di soldati.

La battaglia del Ponte Rotto a San Lorenzo in Campo

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Il 6 marzo 1797 giunse a San Lorenzo in Campo la notizia dell’avvicinarsi delle truppe francesi, ma pochi erano i ribelli rimasti, alcuni certi della riuscita della missione affidata a Francesco Ferrante Ganganelli erano ritornati nelle proprie abitazioni, altri i più timorosi ed i meglio forniti di denaro colsero l’occasione per fuggire. Inoltre il Cesano in piena aveva impedito l’arrivo delle truppe coalizzate dai paesi sulla destra del fiume. Le donne, i bambini e gli anziani si erano riuniti a pregare nella chiesa del santissimo crocefisso e i ribelli rimasti con i pochi accorsi dai paesi vicini, al suono della pubblica campana si prepararono alla battaglia. Dopo aver fatto benedire le armi, invocato l’aiuto divino, esposte le immagini del crocefisso, della Beata Maria Vergine, i ribelli si organizzarono per il combattimento appostandosi nelle case esterne ed in particolare in quella di Duranti, che era ben protetta da un solido muro di cinta. Le truppe francesi giunte con difficoltà a causa delle precedenti nevicate e delle piogge, che avevano impregnato il terreno d’acqua, nelle vicinanze di San Lorenzo in Campo trovarono il ponte che scavalcava un torrente distrutto dai laurentini, oggi detto appunto “Ponte Rotto”, che rese difficile il loro passaggio. Costruirono un ponte provvisorio e con difficoltà riuscirono ad oltrepassare il torrente e a piazzare l’artiglieria in un terreno vicino alla strada, non più lontano di 300 metri dal paese. L’artiglieria iniziò un fitto bombardamento con palle di cannone da 6 e 8 libbre con lo scopo di impaurire e di mettere in fuga gli insorgenti, che invece con coraggio rimasero nelle loro postazioni aspettando che il nemico si avvicinasse per essere a tiro di fucile. Si contarono sessantasette cannonate solo due andarono a segno, una colpì la sede municipale senza però fare danni e l’altra sfiorò il tetto di una abitazione rompendo solo alcune tegole, tutte le altre cannonate passarono alte sopra il paese. La fanteria francese alle ventidue e tre quarti precise, con lo scopo di accerchiare il paese si divise in due ali. Al grido di “viva Gesù”, “viva Maria” e “viva il Papa”, i rivoltosi risposero al fuoco nemico con un incessante e preciso fuoco di fucileria. La tradizione locale narra che ogni qualvolta l’artigliere francese si apprestava a caricare il cannone era colpito a morte prima di compiere la propria azione.

La battaglia durò circa un’ora e tre quarti, prima cadde l’ala sinistra incalzata dai difensori della casa Duranti, poi cadde anche quella di destra che era in difficoltà a causa del torrente in piena che scorre lì vicino. Passata la mezzanotte una forte pioggia, l’oscurità della notte, la nebbia e le notevoli perdite, costrinsero i soldati francesi a ritirarsi precipitosamente nella confusione e nel disordine. I rivoltosi non subirono perdite, né subirono danni alle abitazioni a causa dei cannoneggiamenti, mentre le truppe francesi per ammissione del generale Guisson lasciarono sul campo di battaglia tra morti e feriti gravi circa 200 uomini, tra cui il loro colonnello e alcuni ufficiali. La mattina seguente i laurentini uscirono dal paese per verificare l’esito della battaglia e per seppellire o bruciare i cadaveri dei nemici rimasti uccisi. Il coraggio dei laurentini fu molto apprezzato dagli ufficiali e dalla truppa francese, tanto che gli ufficiali di ritorno a Senigallia raccontarono: ”....essersi veduto da quel maledetto paese un fuoco d’inferno ne esserne venuto colpo, che andasse a vuoto, e non facesse strage de’ suoi, feriti tutti o nella testa o nel petto”. Il merito della vittoria dei rivoltosi sull’esercito francese fu anche attribuito ad una scultura lignea del santissimo crocifisso, eseguita da fra Innocenzo da Pietralia custodita nell’omonima chiesa. Da allora tutti gli anni con funzioni religiose è ringraziato il santissimo crocifisso per la miracolosa vittoria. In quei giorni molte famiglie decisero di abbandonare San Lorenzo in Campo per il timore che le truppe francesi tornassero più numerose ed armate. Gli ufficiali francesi della piazza di Senigallia, infuriati per l’esito della battaglia stavano predisponendo una nuova spedizione richiamando nuove truppe e l’artiglieria pesante dalla piazza di Ancona, minacciando: “di non lasciar in San Lorenzo in Campo pietra sopra pietra, e di passar tutti a filo di spada quanti ne fosser venuti loro per le mani”[8].Il 10 marzo una delegazione di quattro laurentini tra cui il sig. Giosofatte Coli e don Pacifico Mariotti si recarono a Senigallia per presentare al generale Guisson una dichiarazione con la quale si impegnavano a mantenere l’ordine e la tranquillità nel paese, a far deporre le armi, a rendere il grano, i foraggi presi ai francesi ed a liberare i prigionieri. Il coraggio degli insorgenti fu ammirato anche dai repubblicani. Il comandante francese Guisson si dimostrò comprensivo e benevolo con i rivoltosi e non ordinò rappresaglie, sia perché impressionato dalla resistenza opposta dal piccolo paese, sia perché a seguito del trattato di Tolentino le truppe francesi dovevano di lì a poco lasciare la nostra regione. Il sacerdote Ligi invitò con una lettera il comune di San Lorenzo “A ringraziare Dio, dei singolari benefici da Lui ricevuti nella sera del 6 marzo, in cui fu valorosamente combattuto contro i francesi”. Nella seduta consiliare del 17 giugno 1797 fu ringraziato Dio: “... per avere prodigiosamente protetti e difesi i Laurentini, nella sopraccitata sera, in cui volevano i Francesi mettere a sacco e a fuoco la loro terra, perché spinta dallo zelo della religione e del trono, aveva contro loro coraggiosamente impugnate le armi, nulla valutando le loro leggi e la loro potenza, in vista di si memorabile grazia, per cui S., Lorenzo ebbe la consolazione di veder salvi tutti i suoi templi, le sue famiglie, le sue sostanze, se stesso”. Furono celebrate solenni funzioni religiose nella chiesa del santissimo crocefisso e sino agli inizi del secolo scorso, la sera del 6 marzo, anniversario della battaglia del Ponte Rotto, il canto del Te Deum era ripetuto[9].

  1. ^ Dattiloscritto Storia di Montemaggiore al Metauro (PU), p. 25
  2. ^ Sandro Petrucci, Le insorgenze anti-giacobine, il problema dell’identità nazionale e la “morte della patria”. Spunti per la rinascita della nazione spontanea, secondo convegno nazionale dell’ISIN Milano il 26 ottobre 1997
  3. ^ Annali di Roma - Da gennaio a tutto aprile dell’anno 1797 - Opera periodica del Sig Ab. Michele Mallio - Tomo ventesimoprimo in Roma MDCCXCVII - Nella stamperia di Giov. Batt. Cannetti, p. 153
  4. ^ Virginio Villani, Monte Secco, Teconstampa Edizioni 2016, pp. 323, 324
  5. ^ R. Paolucci, Mons. Severoli e l’invasione francese del Ducato di Urbino, in “Studia Picena”, VIII (1932), pp. 13,15
  6. ^ Paolo Pastori, Frammenti di un altro 1799: comunità e federazione nella resistenza delle popolazioni italiane alle armate “giacobine”, G. Giappichelli, 2003, p. 78
  7. ^ Dino Mengozzi, Sicurezza e criminalità: rivolte e comportamenti irregolari nell’Italia centrale : 1796-1861, p. 46
  8. ^ Annali di Roma - Da gennaio a tutto aprile dell’anno 1797 - Opera periodica del Sig Ab. Michele Mallio - Tomo ventesimoprimo in Roma MDCCXCVII - Nella stamperia di Giov. Batt. Cannetti, pp. 154, 155, 156. 157, 158
  9. ^ Luigi Nicoletti, Di Pergola e dei suoi dintorni – Pergola Stabilimento Tipografico Gasperini 1899, pp. 258, 259, 260, 261, 262, 263, 264, 265, 266, 267, 268