La sospensione dei combattimenti e le retrovie
[modifica | modifica wikitesto]Alla fine di marzo a Cassino incominciò una situazione di stallo: la linea del fronte dal Garigliano passava ora attraverso la città distrutta, e il Castello era in mano agli Alleati; più in alto il disagevole saliente che dalla Testa di Serpente passava verso monte Castellone e colle Abate era ancora in possesso delle forze alleate, nonostante in alcuni punti i capisaldi nemici si trovassero a poche decine di metri di distanza[1]. Qui, a nord di Cassino, durante il periodo di stallo anche le truppe francesi furono rimpiazzate dai britannici della 4ª Divisione dell'8ª Armata e successivamente dai neozelandesi, che così ebbero modo di riposare dopo i duri scontri nella cittadina[2].
Le retrovie alleate
[modifica | modifica wikitesto]Dietro questa linea la popolazione di Cassino e delle immediate retrovie continuava a soffrire e a patire enormi disagi. Oltre alle numerose vittime causate dal fuoco di entrambi gli schieramenti, una delle cause di morte tra i civili di Cassino fu la malaria, malattia che si era propagata a causa dell'inondazione provocata dai tedeschi della vallata del Rapido, che con tutti i cadaveri di animali ed esseri umani si era riempita di zanzare. Se i soldati disponevano di alcune forme di protezione dalla malattia, i civili ne erano completamente in balia e accusarono diverse morti anche dopo la fine dei combattimenti[3]. Nel frattempo, nelle retrovie alleate incominciarono a diffondersi tra la popolazione le prime notizie delle cosiddette "marocchinate", violenze e stupri di massa commessi dalle truppe nordafricane francesi, in particolare i goumier (le truppe da montagna marocchine irregolari, utilizzate sempre più massicciamente dal corpo d'armata di Juin). Il generale Juin ricevette numerose proteste sul comportamento dei suoi uomini; successivamente persino il papa Pio XII intervenne, e nei giorni che seguirono lo sfondamento della Gustav fu impedito alle truppe alleate «di colore» l'ingresso a Roma[4]. Norman Lewis, in qualità di ufficiale dell'intelligence della 5ª Armata, riferì di numerose brutalità e stupri indiscriminati compiuti da soldati genericamente identificati come nordafricani, che dopo aver disertato si erano spinti in diverse zone delle retrovie del fronte, fino ad Afragola, aggiungendo nella popolazione altro terrore a quello dei combattimenti e delle privazioni[5]. Il racconto di tali violenze è però, soprattutto, il risultato di una mediazione culturale, sociale e politica, in cui si intrecciarono credenze popolari, superstizioni e distorsioni della realtà[6]. Una testimone raccontò di «soldati scuri di pelle che indossavano gonnellini come divisa», e molto spesso nelle memorie delle donne abusate si tese a confondere soldati di diverse nazionalità, come indiani e mongoli, definiti indistintamente tutti «marocchini»[7]. Parallelamente nacque in quei territori un'immagine stereotipata del soldato tedesco: seppur nei mesi precedenti i tedeschi stessi avevano causato enormi stenti e privazioni alle popolazioni, ciò fu in un certo senso giustificato a posteriori attribuendolo a esigenze militari, concetto che nelle popolazioni rurali era più facilmente comprensibile rispetto alla violenza immotivata degli Alleati[8]. Tali accuse assunsero nei mesi successivi una certa consistenza, al punto da dover essere analizzare con particolare attenzione e cautela: il corrispondente del Daily Telegraph Leonard Marsland Gander osservò che «I goumiers sono diventati una leggenda, oggetto di aneddoti di cattivo gusto [...] non c'è resoconto dei loro stupri o di altre malefatte che non sia troppo strampalato per essere riferito come vero»[9].
Per le truppe alleate al fronte di Cassino, Napoli divenne una sorta di miraggio, che ai soldati anglo-statunitensi aveva molto da offrire nonostante la condizione alimentare della popolazione civile fosse critica. I ristoranti sul lungomare erano aperti, il Teatro di San Carlo rimasto indenne dalle distruzioni offriva spettacoli e si potevano fare gite fino a Capri. Per alcuni andare in licenza a Napoli era come «[...] passare dall'atmosfera di un incidente stradale direttamente dentro un cabaret volgare e rumoroso»[10]. Ma la popolazione continuava a soffrire la fame: il giornalista Alan Moorehead fu scosso dalla povertà, dalla prostituzione e dalla criminalità sfacciata[11], Norman Lewis annotò come «dai pali del telegrafo alle fiale di penicillina, nulla sembrava troppo grande o troppo piccolo per sfuggire alla cleptomania dei napoletani»[12]. Questo era dovuto soprattutto alla miseria e alla prostrazione portata dalla guerra, alla quale gli Alleati cercarono di porre rimedio, a Napoli e in altri centri urbani, con politiche d'emergenza a favore della popolazione nella misura in cui queste fossero compatibili con le proprie finalità militari[13]. Con questa logica l'amministrazione militare si impegnò a garantire alla popolazione civile l'indispensabile per la sopravvivenza e il mantenimento della sicurezza pubblica, concentrandosi quindi sul ripristino del porto, dell'impianto idrico, elettrico e della rete ferroviaria, ossia elementi vitali per sostenere lo sforzo bellico[13]. Ma il soddisfacimento delle esigenze alimentari fu deludente, e il mercato nero fiorì; nell'aprile del 1944, il bollettino dello Psychological Warfare Bureau stimò che il 65% del reddito pro-capite dei napoletani provenisse dai traffici di forniture alleate rubate[14][15]. Per i soldati stanchi e demoralizzati provenienti da Cassino, Napoli rimaneva comunque la meta più ambita, dove le visite ai bordelli divenne l'occupazione principale. L'esercito dovette riempire la città di "stazioni di profilassi", ma ciò non impedì un'epidemia di gonorrea a marzo contenuta con difficoltà[16], così come con difficoltà si dovette fronteggiare anche un'epidemia di tifo esantematico che investì la città a fine 1943 e si protrasse nei primi mesi del 1944. A questa emergenza le autorità alleate reagirono energicamente con l'impiego su vasta scala del DDT, grazie al quale si poté debellare l'epidemia e tenere al sicuro i soldati sottoponendoli a misure preventive[17].
Le retrovie tedesche
[modifica | modifica wikitesto]Se le grandi e piccole città del sud Italia si trovavano in condizioni forse più difficili di quanto lo fossero sotto l'occupazione tedesca, le città italiane nel territorio della Repubblica Sociale Italiana a nord della Gustav e dotate di qualche importanza commerciale, oltre a subire l'occupazione e la repressione tedesca, erano anche regolarmente bombardate dall'aviazione alleata[18]. In particolare a Roma, situata nel cuore delle immediate retrovie tedesche, era finito il tempo degli entusiasmi che seguirono gli sbarchi di gennaio, quando per giorni migliaia di romani aspettarono speranzosi il celere arrivo delle truppe anglo-statunitensi. Gli scontri di Anzio e Cassino si erano arenati e la speranza di una imminente liberazione di Roma era svanita[19]. Nel contempo l'occupazione della capitale da parte delle forze tedesche si radicalizzò, soprattutto per quanto riguardava la persecuzione degli ebrei. L'inverno fu «lungo e fosco» per i romani non minacciati di sterminio; in città si erano riversati centinaia di migliaia di sfollati, l'elettricità funzionava a singhiozzo e interi quartieri rimanevano al buio per giorni, la tubercolosi e la mortalità infantile crescevano vertiginosamente, mentre i combattimenti lungo la Gustav impedivano l'arrivo di grano dal sud Italia e la sistematica distruzione delle vie di comunicazione da parte dell'aviazione alleata rendeva difficoltoso l'arrivo di generi alimentari verso la capitale[20]. I prezzi quadruplicarono in fretta e i romani incominciarono a patire pesantemente la fame: le razioni disponibili erano sempre più esigue e i tumulti della popolazione vennero in alcuni casi soppressi nel sangue dai tedeschi. In quella fase della guerra la Germania era disperatamente a corto di manodopera e gli uomini incominciarono a venire rastrellati per essere mandati a lavorare nel Reich tedesco; nel mentre in via Tasso, sede della Gestapo, le SS torturavano i prigionieri catturati anche grazie all'azione delle milizie fasciste, soprattutto della Banda Koch, che catturava e interrogava sotto tortura partigiani, dissidenti politici o semplici sospettati[21]. Parallelamente nel marzo 1944 i gruppi della Resistenza avevano cominciato a coordinare la loro attività e, sotto la guida degli Alleati, incominciarono a bersagliare le linee di comunicazione tedesche che portavano ai fronti di Cassino e Anzio[22].
Ufficialmente Roma era "città aperta", ma di fatto i tedeschi si servirono della città come un ganglio vitale per le loro linee di comunicazione verso il fronte e vi installarono comandi e distaccamenti oltre che praticarvi una violenta repressione contro la popolazione. A loro volta gli Alleati bombardavano legittimi obiettivi militari, come i depositi delle stazioni e i magazzini dei rifornimenti, ma lo fecero con la precisione che gli strumenti dell'epoca consentivano, suscitando così anche indignazione tra la popolazione[22]. I romani di sesso maschile passarono in buon numero alla clandestinità quando i rastrellamenti tedeschi si fecero più intensi, e per le retrovie tedesche Roma divenne una vera e propria spina nel fianco. Gli episodi di resistenza all'occupante crebbero di numero e intensità fino a raggiungere il loro culmine il 23 marzo 1944 con un'azione contro un distaccamento di polizia tedesca che marciava verso il Viminale lungo via Rasella, nel cuore della città[23]. A tale azione seguì la feroce rappresaglia delle Fosse Ardeatine, figlia della rabbia e della paura di un'insurrezione generale della città contro l'occupante da reprimere immediatamente nel sangue: 335 persone, molte delle quali prelevate da via Tasso e dal carcere di Regina Coeli con la collaborazione attiva del funzionario di polizia Pietro Caruso, furono assassinate dai tedeschi[23][24].
La circostanza che l'attentato di via Rasella fu compiuto nello stesso giorno in cui sul fronte di Cassino, dopo giorni di stallo, furono sospesi i combattimenti è indicativa della mancanza di coordinamento dell'offensiva partigiana a Roma con lo sviluppo delle operazioni militari alleate. L'eccidio della Fosse Ardeatine segnò una forte battuta d'arresto della Resistenza romana, che – anche a causa di un'efficace azione repressiva condotta dagli occupanti nei mesi successivi – avrebbe poi fallito nell'organizzare l'insurrezione popolare all'arrivo degli Alleati[25]. Inoltre, nello stesso mese i tedeschi approfittarono della sospensione dei combattimenti per destinare forze a una violenta ed efficace operazione antipartigiana nelle province di Terni, Perugia e Rieti, che portò alla ritirata delle formazioni partigiane, tra cui la Brigata Garibaldi "Antonio Gramsci"[26]. Nell'ambito di tali operazioni i tedeschi commisero diversi massacri, tra cui la strage di Leonessa (2-7 aprile) e l'eccidio delle Fosse Reatine (9 aprile).
L'ostilità dei romani all'occupazione tedesca peraltro rispecchiava quella del resto della popolazione del nord Italia, dove nella primavera del 1944 crebbero gli episodi di resistenza e azioni di sabotaggio lungo le linee tedesche, che impegnarono sempre più uomini della Wehrmacht e della RSI. A maggio i partigiani erano più di 70 000 (in confronto dei 10 000 di inizio anno) che operavano in una trentina di zone del nord; secondo Alexander, il 22 maggio i patrioti «tenevano ormai in scacco» sei divisioni tedesche[23]. Lo stesso Kesselring dovette ammettere che durante la lotta anti-partigiana in Italia «la quota di perdite da parte tedesca è stata assai più elevata di quella delle bande»[27], e che il grande pericolo che i partigiani rappresentavano per un'eventuale ritirata delle due armate tedesche dalla Gustav dovesse porre la lotta contro le formazioni partigiane «sullo stesso piano della guerra al fronte», con l'impiego di ogni mezzo bellico[28]. A ciò si unì la poderosa offensiva aerea alleata contro le linee di comunicazione nel nord Italia (Operazione Strangle), durante la quale furono effettuate oltre 50 000 missioni sganciando 26 000 tonnellate di bombe. A metà aprile erano stati distrutti ventisette ponti, mentre la linea ferroviaria Firenze-Roma era stata colpita in ventidue punti. Ogni stazione, ponte, officina per riparazione delle locomotive e treno parcheggiato erano obiettivi, e a metà aprile gli Alleati avevano ormai bloccato tutte le linee per Roma, sicché i rifornimenti dovevano proseguire da Firenze a Roma su camion. Ai primi di aprile Kesselring ordinò che i convogli viaggiassero solo di notte, ma l'allungarsi delle ore di luce non consentiva di percorrere la tratta in una sola volta, e in molte occasioni un viaggio di trecento chilometri fra andata e ritorno veniva svolto in una settimana[29]. La guerra aerea complicò il sistema logistico tedesco e intaccò la sua capacità di resistere a un'offensiva terrestre di lunga durata, ma gli stessi comandi alleati dovettero constatare come i bombardamenti, da soli, non erano in grado di sconfiggere un esercito ordinato e disciplinato seppur privo di supporto aereo[30].
Tutto ciò si rifletté sotto il profilo dei rifornimenti che i soldati tedeschi potevano avere sul fronte di Cassino. Qui la situazione dei tedeschi era ben peggiore, per quanto possibile, rispetto a quella degli Alleati, i quali potevano disporre di munizioni di artiglieria in abbondanza per tempestare di proiettili lo stretto passaggio noto come Death Valley, che dalle retrovie tedesche portava all'abbazia. Durante il giorno la continua ricognizione aerea della 5ª Armata scatenava bombardamenti su chiunque si arrischiasse a percorrere quel sentiero durante il giorno. Il paracadutista Werner Eggert ricordò come «la nostra situazione per quanto riguarda l'acqua potabile era precaria» e di come «[...] molti dei nostri uomini morirono nel corso di quella salita di un'ora o della discesa, che ne richiedeva mezza»[31]. I furieri tedeschi lamentavano mancanza di disinfettanti, sapone, insulina, cerotti, insetticidi nonché penuria di foraggio, ferri e chiodi per i cavalli. Verso la fine dell'inverno erano incominciati a scarseggiare prima i fusti per il carburante, poi il carburante stesso si era dimezzato, tanto che i meccanici cercarono di ricavarlo dalle vinacce e dall'acetone delle fabbriche di vernici; la velocità degli automezzi fu ridotta da sessanta a quaranta chilometri orari e si sperimentarono addirittura ruote di legno per risparmiare gli pneumatici[32].
Fascismo e questione ebraica
[modifica | modifica wikitesto]Premesse storiche
[modifica | modifica wikitesto]Gli ebrei in Italia avevano ricevuto la piena emancipazione giuridica durante la seconda metà dell'Ottocento, in stretta connessione col processo risorgimentale e di unità nazionale. Lo Statuto Albertino del 4 marzo 1848 nonostante non sancì la piena emancipazione, mise le basi affinché ve ne fossero i presupposti. Lo Statuto riconosceva l'uguaglianza dei cittadini senza distinzione di confessione, e a ciò il 29 marzo venne emesso un editto che riconosceva esplicitamente agli ebrei i diritti civili, completato nei mesi successivi dalla legge del 19 giugno che ne proclamava la piena integrazione anche nei diritti politici. Questo complesso iter legislativo peraltro venne esteso via via in tutti i territori che si annetteva il Regno di Sardegna attraverso le guerre di indipendenza, consentendo di estendere anche alle altre regioni i principi dell'emancipazione[33]. Gli ultimi a ottenerla furono nel 1870 gli ebrei della comunità ebraica di Roma, la più numerosa e povera della penisola, nonché l'unica con una storia bimillenaria ininterrotta. Il 20 settembre di quell'anno infatti, il giorno della presa di Roma, il ghetto di Roma fu aperto e anche agli ebrei di Roma furono equiparati a cittadini italiani[34].
Nonostante la raggiunta emancipazione politica e civile, l'assimilazione tra la società nazionale e gli ebrei non fu semplice né immediata[35]. La scarsa consistenza dell'antisemitismo nell'Italia liberale, non esclude l'antisemitismo dal novero dei problemi che dovette affrontare la comunità ebraica in Italia. Nonostante la mancanza di studi sistematici sul tema - secondo lo storico Enzo Collotti - alcuni studi effettuati in determinate aree della penisola dimostrano la presenza dei consueti motivi anti-giudaici nella stampa cattolica di provincia e un uso dell'antisemitismo in una forma anche più diffusa, seppure meno diretta, nell'additare il giudaismo tra i fattori di turbamento dell'equilibrio sociale a cavallo tra Ottocento e Novecento. In quel periodo infatti le trasformazioni dettate dall'ascesa della borghesia e dall'industrializzazione stavano modificando gli antichi rapporti sociali delle aree rurali, e tra i colpevoli di tali mutamenti venne indicata anche l'avidità di denaro degli ebrei che scuoteva tradizionali assetti secolari[36].
Con l'Unità d’Italia vi fu dunque una sorta di "risveglio" dell'ebraismo in Italia, che andò pari passo con il risveglio dell'anti-giudaismo della Chiesa cattolica, che però rimase circoscritto a un ambito definito; esso infatti fu tra gli strumenti e le armi che la stessa Chiesa cattolica usò contro la classe dirigente liberale nel processo di formazione dello Stato unitario. La rivista «La Civiltà Cattolica», con il pretesto di denunciare le «turpitudini» dell'ebraismo, utilizzò tutta la gamma retorica dei luoghi comuni intorno alla «dominazione mondiale degli ebrei», all'«occulta potenza giudaica», al «giogo usuraio degli israeliti», all'«inesorabile amore dell’oro» degli ebrei, aggiungendo ad argomenti vecchi e consunti un linguaggio di bassa lega per denunciare il legame tra il giudaismo e la massoneria, che aveva trasformato la menzogna dei diritti dell'uomo nella realtà dei diritti degli ebrei. Un linguaggio aveva un bersaglio concreto anche se non immediatamente realizzabile: la fine dell'eguaglianza civile degli ebrei[37].
Il crescere del nazionalismo italiano, che trovò il supporto di ebrei come Gino Arias e Primo Levi l'Italico, comportò anche la prima esplicita presa di posizione antisemita del nuovo movimento politico[38]. Ricerche degli anni '80 e '90 del Novecento hanno approfondito vari momenti nella formazione di questa componente di un antisemitismo italiano. L'attenzione si è soffermata sull'occasione della guerra italo-turca, quando il maggior organo di stampa del nazionalismo italiano si unì alle voci giornalistiche che attribuivano le ostilità internazionali all'impresa coloniale italiana alle manovre politiche degli ambienti economici ebraici. Più ci si avvicinava alla prima guerra mondiale, più nelle file nazionaliste crebbe la polemica politica antisemita ad opera di scrittori dell'area nazionalista (Luigi Federzoni, Alfredo Oriani, Paolo Orano e Francesco Coppola), che utilizzò in modo sempre più frequente cenni e allusioni alle influenze ebraiche e al loro carattere antinazionale che caratterizzava il delicato equilibrio politico europeo di inizio Novecento[39].
Il percorso dell'ebraismo italiano verso la piena parificazione fu bruscamente interrotto dal fascismo. I Patti Lateranensi dell'11 febbraio 1929 voluti dal fascismo nel quadro della conciliazione tra lo Stato e la Chiesa, che il regime fascista perseguì anche allo scopo di consolidare - con l'adesione di una Chiesa autoritaria - il consenso popolare al regime, rimettendo in discussione la posizione giuridica degli altri culti, che fino ad allora erano stati posti sullo stesso piano dalle norme di tutela penale del Codice Zanardelli del 1889[40]. Nasceva così la formula dei "culti ammessi" che in una ideale scala di valori erano gerarchicamente inferiori alla Chiesa cattolica, in quanto portatrice dell'unica religione di Stato, le altre erano solamente tollerate[41]. Il regime dittatoriale poi, si arrogò il diritto di modificare la legislazione esistente in materia di «culti a-cattolici», per adeguarla alla nuova gerarchia stabilita tra le confessioni e soprattutto al nuovo diritto pubblico, che aveva di fatto vietato il libero associazionismo stabilendo un più stretto controllo dello Stato su ogni realtà istituzionale che non fosse diretta emanazione dello Stato stesso o della Chiesa cattolica[42].
In questo quadro rientrarono le norme legislative e amministrative del biennio 1930-1931, destinate a controllare i "culti ammessi", soprattutto il Regio decreto del 30 ottobre 1930 avente per oggetto le comunità israelitiche e l'Unione delle comunità. Con questo atto autoritario, lo Stato fascista poneva fine all'evoluzione delle comunità verso un sistema associativo che rispettasse ordinamenti gli interni delle comunità per imporre un ordinamento di tipo centralistico, che prevedeva l'obbligatorietà di appartenenza per gli ebrei su base territoriale e il potere di imposizione dei tributi, configurando per le comunità lo statuto di enti di diritto pubblico. Ma, soprattutto, la nuova normativa, oltre a stabilire un forte controllo governativo sulle comunità, ne restringeva fortemente l'autonomia statutaria e il carattere anche di democrazia interna, accentuando anche nella nuova Unione delle comunità la concentrazione del potere decisionale negli organismi direttivi. Tra le novità più rilevanti del nuovo ordinamento, ci fu la possibilità dello Stato di istituire o di sopprimere le comunità, che furono ridisegnate secondo criteri prevalentemente amministrativi, indipendentemente da volontà di membri o da ragioni di carattere storico. L'elezione del presidente della comunità e la nomina del rabbino capo era poi soggetta all'approvazione del Ministero dell'interno, cui spettava anche il controllo amministrativo sulle comunità[43].
La legislazione contro gli ebrei del 1938 venne a collocarsi nel quadro di un duplice sviluppo. Da una parte il potenziamento della politica popolazionista che il regime fascista a partire dalla seconda metà degli anni Venti aveva assunto come condizione preliminare e non soltanto come corollario della sua politica di potenza; dall'altra, l'avvio di una politica di tutela della razza come conseguenza della conquista coloniale in Etiopia che metteva a contatto la popolazione italiana con quelle indigene, con il rischio di una «contaminazione» razziale. Nè gli orientamenti popolazionistici, né gli studi che si prefiggevano di dimostrare la superiorità della razza bianca su quella nera, furono una invenzione del fascismo, e circolavano già negli ambienti nazionalistici dell'Italia liberale, ma trovarono terreno fertile quando incontrarono le ambizioni e aspirazioni della politica estera fascista[44].
Il razzismo fascista nelle colonie
[modifica | modifica wikitesto]La guerra contro il Negus rappresentò un passaggio fondamentale per la messa a punto di un indirizzo razzistico nella politica fascista in relazione ai problemi del neonato impero e alle conseguenze che ne derivarono nei rapporti interrazziali con le popolazioni dei territori appena conquistati. Contemporaneamente alla retorica dell'impero, indissociabile dalla messa a punto dello statuto di apartheid per le popolazioni occupate, il regime affrontò una fase di rilancio interno, che, passando attraverso una sorta di rinnovamento del costume fascista, si riprometteva di dare al popolo italiano maggiore consapevolezza della potenza nazionale che con l'impero era stata conseguita e un senso di rigenerazione del popolo italiano che coincidesse con la nascita dell'«uomo nuovo» fascista[45]. Mussolini in persona riteneva di poter esaltare le virtù guerriere del popolo italiano, sfruttando peraltro il contesto internazionale sul quale aveva pesato l'isolamento diplomatico in cui la guerra d'Africa aveva posto l'Italia, che diede alla propaganda un tema con cui spingere la nazione in un clima di continua tensione e di preparazione di un popolo permanentemente in armi. L'inizio della guerra di Spagna, a un paio di mesi dalla conclusione ufficiale delle operazioni in Etiopia, intervenne a sottolineare una sorta di stato di all'erta permanente, di ininterrotta tensione politica ed ideologica, e contribuì a definire la contrapposizione degli schieramenti già visti durante la preparazione all'invasione dell'Etiopia; da una parte l'Italia che sfruttò propagandisticamente le sanzioni comminatigli dalla Società delle Nazioni per l'invasione dell'Etiopia, e dall'altra Francia e Inghilterra, le "colpevoli" di quelle sanzioni. La Spagna esaltò ulteriormente lo scontro tra il fascismo e le democrazie occidentali, tanto più che di fronte alla guerra civile si andò cementando il fronte unito di Italia e Germania con la creazione dell'Asse Roma-Berlino. Fu in questo contesto che l'incipiente propaganda contro gli ebrei si fuse e si potenziò con la polemica contro le "democrazie plutocratiche", utilizzando anche i vecchi temi dell'anti-giudaismo cattolico ottocentesco[46].
L'antisemitismo fascista è sicuramente figlio di questa congiuntura. Se i provvedimenti legislativi ed amministrativi contro gli ebrei furono adottati a partire dal 1938, è sicuramente nel corso del 1937 che Mussolini e il regime pervennero alla decisione di dare avvio anche in Italia all'antisemitismo di Stato, ossia alla campagna programmata e sistematica contro gli ebrei[47]. In questo contesto l'inserimento, il 17 novembre del 1938, dei Provvedimenti per la difesa della razza italiana nel quadro della campagna contro gli ebrei che proibivano il matrimonio tra i cittadini italiani di razza ariana e «persona appartenente ad altra razza» perfezionava e generalizzava il principio contenuto in nuce nel decreto dell'aprile del 1937, proclamando l'illecito penale del matrimonio tra italiani e sudditi etiopi. Secondo lo storico Enzo Collotti, la confluenza a questo punto tra legislazione razzista coloniale e legislazione antiebraica esprimeva un nesso logico e concettuale assolutamente indissociabile: erano due rami che discendevano dallo stesso tronco. Come affermò l'accademico Roberto Maiocchi: «L'immagine del negro universalmente diffusa tra gli italiani sarà il cavallo di Troia con cui il razzismo antisemita verrà fatto penetrare in Italia»[48].
L'antisemitismo fascista nel contesto europeo
[modifica | modifica wikitesto]La legislazione antisemita introdotta nel 1938 nell'Italia di Mussolini nacque in un contesto continentale in cui venne elaborato sia un rivoluzionario antisemitismo di Stato introdotto improvvisamente nel 1933 nella Germania di Adolf Hitler, sia al composito sistema di legislazioni antisemite sviluppatosi in Europa in quegli anni[49].
Il governo tedesco fu il primo a varare - già nei primi mesi di vita - una legislazione antiebraica di carattere "moderno", ossia tecnicamente avanzata, ideologicamente basata su una ostilità radicale, saldamente imperniata sul razzismo ad impostazione biologica. Inoltre quello hitleriano fu il primo governo europeo occidentale del ventesimo secolo ad avallare e stimolare l'ostilità popolare e la violenza fisica contro gli ebrei. In entrambi i casi si trattò di modificazioni rivoluzionarie rispetto alla situazione preesistente[50]. Cinque anni dopo, nel 1938, parallelamente alla conferenza di Monaco, che rappresentò il momento in cui Hitler iniziò ad avere una pesante influenza sui governi dell'Europa centrale, ebbe inizio un complesso processo di estensione continentale delle legislazioni antiebraiche: provvedimenti persecutori vennero annunciati ed emanati in Romania (30 dicembre 1937 e 21 gennaio 1938), in Ungheria (5 marzo e 28 maggio 1938), Italia (14 febbraio e settembre-novembre 1938), Slovacchia (fine 1938 e 18 aprile 1939); a cui si affiancarono i decreti emanati in Polonia del 31 marzo e del 6 ottobre 1938, che revocavano la cittadinanza agli emigrati ed erano diretti in particolare contro quelli ebrei[51].
Il "primato cronologico" del nazismo e il suo anticipo di cinque anni sulla data della decisione italiana, hanno stimolato un interrogativo assai rilevante sulla causa principale dell'introduzione dell'antisemitismo di Stato in Italia. In sostanza, testimoni e storici si sono chiesti se essa possa (o debba) essere spiegata col fatto che Mussolini subì una "imposizione" dell'alleato tedesco, o una sua "pressione", o ancora se si trattò di un "allineamento volontario", o se infine nel fascismo si verificò una "maturazione" totalmente o largamente autonoma, influenzata dall'esempio nazista, ma legata soprattutto alle vicende nazionali italiane[52]. Secondo lo storico Sarfatti, e in generale secondo la storiografia dagli anni Novanta in avanti le prime due spiegazioni sono assolutamente da scartare, in quanto non esiste alcun riscontro documentale a riguardo; la terza ipotesi invece, seppur sostenuta in passato da alcuni importanti storici, sempre secondo Sarfatti, è ormai superata dagli studi che vedono le leggi razziali fasciste come un punto di arrivo di un percorso di maturazione iniziato molto prima[53].
La propaganda antisemita in Italia
[modifica | modifica wikitesto]Le leggi razziali introdotte dallo stato italiano nel 1938 non si inseriscono in un contesto avulso, fino ad allora, da mentalità e pratiche di tipo antisemita. Va rilevato, anzi, che i«l tessuto sociale e culturale italiano, e ancor più gli organismi e gli apparati del regime, si mostra[no] […] tutt'altro che impreparati ad accogliere e mettere in pratica la legge della segregazione», sebbene non manchino, «nella società civile e religiosa, sentimenti di opposizione alla legislazione stessa»[54]. Come in altri paesi europei, in Italia si diffonde, a partire dalla fine dell'Ottocento e sulla scorta di un radicato pregiudizio di tipo religioso, una pubblicistica di stampo antisemita che si basa però su una polemica ormai "modernamente" politica. È tuttavia dopo la Grande guerra, ancora sull'onda lunga di fenomeni sovranazionali, che «l'antisemitismo inizi[a] davvero a pesare nella politica e nella società italiana»[54]. Nel 1921 è pubblicata, a cura di Giovanni Preziosi – futura «figura di punta dell'antisemitismo fascista» – la traduzione italiana dei Protocolli dei Savi di Sion, un documento falso prodotto all'inizio del secolo nella Russia zarista e da allora in poi sfruttato come prova della congiura ebraica mondiale.
Nei primi anni del fascismo al potere, la polemica antigiudaica è esercitata in particolare dalle frange più estreme del partito, che insistettero sui temi più vieti della vulgata antisemita: la connessione fra ebraismo, bolscevismo e massoneria; la rappresentazione dell'ebreo come ultima trincea dell'antifascismo[54].
- ^ Parker, p. 294.
- ^ Parker, p. 304.
- ^ Parker, pp. 294-295.
- ^ Parker, p. 295.
- ^ Lewis, p. 171.
- ^ Ponzani, p. 228.
- ^ Ponzani, p. 229.
- ^ Ponzani, p. 233.
- ^ Leonard Marsland Gander, citato in Jean Christophe Notin La Campagne d'Italie, Librarie Académique Perrin, 2002, p. 500. Vedi: Parker, p. 296.
- ^ Parker, p. 243.
- ^ Parker, p. 241.
- ^ Lewis, p. 103.
- ^ a b Porzio, p. 43.
- ^ Porzio, p. 45.
- ^ Lewis, p. 143.
- ^ Parker, p. 245.
- ^ Porzio, p. 44.
- ^ Morris, p. 347.
- ^ Atkinson, pp. 555-556.
- ^ Atkinson, p. 557.
- ^ Atkinson, pp. 557-558.
- ^ a b Morris, p. 349.
- ^ a b c Charles F. Delzell, I nemici di Mussolini. Storia della Resistenza in Italia, Roma, Castelvecchi, 2013, pp. 314-320, ISBN 978-88-6944-105-9.
- ^ Giorgio Bocca, Storia dell'Italia partigiana. Settembre 1943-maggio 1945, Milano, Mondadori, 1996, pp. 288-292, ISBN 88-04-43056-7.
- ^ Alberto Benzoni, Elisa Benzoni, Attentato e rappresaglia. Il PCI e via Rasella, Venezia, Marsilio, 1999, pp. 102 e ss, ISBN 88-317-7169-8.
- ^ Carlo Gentile, I crimini di guerra tedeschi in Italia. 1943-1945, Torino, Einaudi, 2015, pp. 132-133, ISBN 88-584-1909-X.
- ^ Kesselring, p. 274.
- ^ Kesselring, p. 277.
- ^ Atkinson, p. 584.
- ^ Atkinson, p. 585.
- ^ Parker, p. 303.
- ^ Atkinson, p. 529.
- ^ Collotti, pp. 4-5.
- ^ Sarfatti 2005, Parte terza. Gli ebrei in Italia.
- ^ Collotti, p. 6.
- ^ Collotti, pp. 7-8.
- ^ Collotti, p. 10.
- ^ Collotti, p. 18.
- ^ Collotti, pp. 18-19.
- ^ Collotti, p. 19.
- ^ Milza, p. 435.
- ^ Collotti, pp. 19-20.
- ^ Collotti, p. 20.
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- ^ Collotti, p. 40.
- ^ Collotti, pp. 40-41.
- ^ Collotti, p. 41.
- ^ Collotti, pp. 37-38.
- ^ Sarfatti 2012, p. 1.
- ^ Sarfatti 2012, p. 2.
- ^ Sarfatti 2012, pp. 2-3.
- ^ Sarfatti 2012, p. 6.
- ^ Sarfatti 2012, pp. 7-9.
- ^ a b c Gadi Luzzatto Voghera, Antisemitismo, in Victoria de Grazia - Sergio Luzzatto (a cura di), Dizionario del fascismo, vol. 1, Torino, Einaudi, 2003, pp. 80-81.