ʿĀʾisha (o Fāṭima) bint Banī Rāshid, al-Manẓarī, al-Waṭṭāsī (più semplicemente nota come al-Sayyida al-Ḥurra (in arabo السيدة الحرة?) o Sitt al-Ḥurra (in arabo ﺳﺖ الحرة?); Chefchaouen, 1485 – Tétouan, dopo il 1542) è considerata come "una delle più importanti figure femminili del mondo islamico occidentale in età moderna"[1].
Sayyida al-Ḥurra (lett. "La Signora libera", nel senso di dotata di indipendenza di giudizio, ma anche "al-Sitt al-Ḥurra", col medesimo significato), fu alleata con Aruj Barbarossa, il corsaro ottomano signore di Algeri[2]. Sayyida al-Ḥurra controllava la parte occidentale del Mar Mediterraneo, mentre Aruj Barbarossa ne controllava la parte orientale[3]. Governò la città di Tétouan (Marocco), tanto da essere ricordata come la Ḥākimat Tetwan (Tétouan), essendo salita al potere dopo la morte del marito ʿAlī al-Manẓarī.
In seguito sposò il sultano wattaside del Marocco Ahmad al-Wattasī, ma si rifiutò di lasciare Tétouan per contrarre il matrimonio, e fu quindi il sultano a dover lasciare la sua capitale Fès per raggiungerla nella sua città e sposarsi con lei.
Questo matrimonio segna l'unico caso nella storia del Marocco in cui un sultano dovette spostarsi dalla sua capitale per contrarre un matrimonio.[1][4]
Il titolo di al-Sayyida al-Ḥurra sottolineava la sua indipendenza da qualsiasi vincolo che potesse scaturire dalla sua condizione di donna.[4]
Biografia
[modifica | modifica wikitesto]ʿĀʾisha (o Fāṭima) nacque attorno al 1485 a Chefchaouen in una nobile famiglia di origine andalusa, i Banū Rāshid. Suo padre era lo Sharīf Mulay ʿAlī b. Mūsā b. Rāshid al-ʿAlamī[5], signore di Chefchaouen, discendente di Sharif Abd as-Salam al-Alami, e tramite lui di Al-Hasan ibn Ali, e sua madre era Zuhra Fernandez, una Mudéjar (cristiana convertita all'Islam).
L'infanzia di ʿĀʾisha (o Fāṭima) fu spensierata e felice, ma offuscata dal costante nostalgico ricordo della caduta di Granada. Si sposò all'età di 16 anni col generale granadino ʿAlī al-Manẓarī, un uomo di 30 anni più grande di lei e amico di suo padre, al quale era stata promessa quando era ancora bambina.
Il padre di al-Hurra, Mulay ʿAlī b. Mūsā, era stato al servizio dei Sultani Nasridi del Sultanato di Granada, e, nel 1480 - prima quindi della resa di Granada alle truppe cristiane dei re cattolici Ferdinando II di Aragona e Isabella di Castiglia nel gennaio del 1492 - aveva trovato rifugio nel Maghreb al-Aqsa con un gruppo di musulmani andalusi e di ebrei sefarditi, e lì aveva fondato la città di Chefchaouen (Shifshāwn, in arabo شفشاون?),[6][4]che servì loro da rifugio.[4]
Donna intelligente, assistette il marito nei suoi affari, e dopo la morte del coniuge nel 1515, fu lei a essere proclamata governante (Ḥākima) di Tétouan.[4] Le cronache spagnole e portoghesi dell'epoca descrivono Sayyida al-Ḥurra come una "loro partner nel gioco diplomatico".[4]
Ben presto si sposò di nuovo. Il suo sposo, il sultano wattaside del Marocco Aḥmad al-Waṭṭāsī, si recò a Tétouan per sposarla, mostrando quanto fosse spiccato il livello di indipendenza della futura moglie.[4][7]
La "Signora libera" non dimenticò, né perdonò mai l'umiliazione dell'esilio forzato da Granada. A causa del suo desiderio di vendetta contro il "nemico cristiano", si dette alla guerra di corsa, alleandosi con Aruj Barbarossa di Algeri.[4] La guerra di corsa le fornì cospicue entrate, bottino e schiavi, e contribuì a mantenere vivo in lei il sogno di tornare in al-Andalus.[4] Divenne presto molto rispettata dai cristiani, in quanto signora che aveva un grande potere sul Mar Mediterraneo. Con lei i cristiani europei negoziavano per il rilascio dei prigionieri portoghesi e spagnoli catturati dai corsari barbareschi.[4][7] Ad esempio, documenti storici spagnoli del 1540 parlano dei lunghi negoziati "tra gli spagnoli e al-Sayyida al-Hurra, dopo un'operazione di successo attuata contro Gibilterra, in cui i corsari musulmani avevano preso "molto bottino e molti prigionieri".[8]
Presto Sayyida divenne "la leader indiscussa dei pirati del Mediterraneo occidentale".[9][10]
Sayyida ebbe una vita di avventura, con forti tinte di romanticismo.[4]
Dopo aver governato per 30 anni, fu detronizzata dal figlio nel 1542[11], si ritirò a Chefchaouen, dove visse per quasi 20 anni.[1]
Note
[modifica | modifica wikitesto]- ^ a b c Ricardo Gil Grimau, Sayyida la-Hurra, mujer marroquí de origen andalusí (PDF), in Anaquel de Estudios Árabes, Instituto Cervantes de Lisboa.
- ^ Ulrike Klausman, Women Pirates and the Politics of the Jolly Roger, Perseus Book LLC, 2010, p. 98, ISBN 978-1282000018, OCLC 892994261.
- ^ Moin Qazi, Women in Islam : exploring new paradigms, 2015, ISBN 9789384878030, OCLC 906544767.
- ^ a b c d e f g h i j k Fatima Mernissi, The Forgotten Queens of Islam, University of Minnesota Press, ISBN 978-0-8166-2439-3.
- ^ (EN) Scott A. Kugle, Sufis and Saints' Bodies: Mysticism, Corporeality, and Sacred Power in Islam, Univ of North Carolina Press, 2011, p. 300.
- ^ Extraordinary Muslim women, su yementimes.com. URL consultato l'11 febbraio 2011 (archiviato dall'url originale il 18 luglio 2011).
- ^ a b Thomas K. Park e Aomar Boum, Sayyida al Hurra, in Historical Dictionary of Morocco, The Scarecrow Press, 2005, p. 316-317, ISBN 978-0810853416.
- ^ Fatima Mernissi, The Forgotten Queens of Islam, University of Minnesota Press, p. 193, ISBN 978-0-8166-2439-3.
- ^ Ann Marie Maxwell, The Daring Daughters of Kahena, su ece.umd.edu, giugno 1996. URL consultato il 29 ottobre 2014 (archiviato dall'url originale il 28 aprile 2016).
- ^ Ulbani Aït Frawsen e L’Hocine Ukerdis, The Origins of Amazigh Women’s Power in North Africa: An Historical Overview (PDF).
- ^ (AR) Mohammed Daoud, History of Tétouan (تاريخ تطوان) (PDF), 1993, p. 122. URL consultato il 7 ottobre 2018.
Altri progetti
[modifica | modifica wikitesto]- Wikimedia Commons contiene immagini o altri file su Sayyida al-Hurra
Collegamenti esterni
[modifica | modifica wikitesto]- (EN) Esra N Kandur, The Barbarossa brothers and Sayyida al-Hurra: Three Muslim corsairs who took on Europe, su middleeasteye.net, 15 febbraio 2022.
- Lidia Gallanti, Sayyida Al-Hurra, la "signora libera", su storicang.it, 25 giugno 2021.