Bandiera dei cinque colori | |
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Soprannome | Cinque razze sotto un'unica unione |
Proporzioni | 5:8 |
Simbolo FIAV | |
Colori | Strisce orizzontali, rossa, gialla, blu, bianca e nera |
Uso | civile e di stato |
Tipologia | bandiera nazionale |
Adozione | 10 gennaio 1912 |
Cessazione | 1928 |
Nazione | Repubblica di Cina |
«Cinque razze sotto un'unica unione» (cinese tradizionale: 五族共和; pinyin: wǔzú gōnghé, «cinque razze o cinque gruppi etnici insieme in armonia») è stato uno dei principi fondamentali su cui è stata fondata la Repubblica di Cina nel 1911.[1] Questo principio enfatizzava l'armonia dei cinque principali gruppi etnici della Cina, rappresentati dalle strisce colorate della bandiera dei cinque colori: gli Han (rosso), i Manciù (giallo), i Mongoli (blu), gli Hui (bianco) e i Tibetani (nero).[2]
In questo contesto, gli Hui si riferivano principalmente al gruppo degli Uiguri, poiché il «territorio Hui» comprendeva il Turkestan cinese durante la dinastia Qing. Il significato del termine «etnia Hui» si è gradualmente spostato verso il contesto attuale durante il periodo 1911-1949 della Repubblica di Cina.
La bandiera delle «cinque razze sotto un'unica unione» cessò di essere utilizzata nel 1928, quando il governo nazionalista del Kuomintang a Nanchino depose il governo Beiyang a Pechino in seguito alla Spedizione del Nord.
Varianti della bandiera furono adottate dall'Impero di Cina e dallo Stato fantoccio giapponese del Manciukuò. Nel Manciukuò fu adottata un'ideologia simile, ma le cinque razze furono cambiate in giapponesi (rosso), Han (blu), Mongoli (bianco), Coreani (nero) e Manciù (giallo).
Galleria delle bandiere
[modifica | modifica wikitesto]Cina
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Insegna militare basata sulla bandiera
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Emblema dell'aeronautica
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Bandiera nazionale della Repubblica di Cina (1912-1928).
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Bandiera nazionale dell'Impero di Cina (1916).
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Bandiera nazionale dell'Impero di Cina (1916).
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Bandiera nazionale del Governo provvisorio della Cina (1937-1940).
Manciura interiore
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Stendardo della Cricca del Fengtian (1922-1928).
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Coccarda della Manchuria Aviation Company (1931-1945).
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Bandiera del Manciukuò (1932-1945).
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Bandiera di guerra del Manciukuò (1932-1945).
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Insegna dell'Esercito imperiale del Manciukuò (1932-1945).
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Coccarda dell'Aviazione imperiale del Manchukuo (1937-1945).
Mongolia Interiore (quattro razze)
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Bandiera del Governo militare mongolo (1936-1937).
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Bandiera del Governo autonomo unito di Mongolia (1937-1939).
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Bandiera del Governo autonomo del Chahar meridionale (1937–1939).
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Bandiera del Governo autonomo dello Shanxi settentrionale Government (1937–1939).
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Bandiera del Mengjiang (1939-1945).
Storia
[modifica | modifica wikitesto]I documenti storici della dinastia Sui mostrano l'adozione di un sistema di stendardi militari che utilizza i cinque colori per rappresentare i cinque elementi: rosso per il fuoco, giallo per la terra, blu per il legno, bianco per il metallo e nero per l'acqua. La dinastia Tang ereditò questo sistema e dispose i colori in una bandiera unica secondo il suddetto ordine degli elementi, per uso militare.
Nei periodi della Liao e dei Song, il popolo dei Kitai usava lo stesso schema di bandiera, come raffigurato nella pittura cinese. Durante il regno della dinastia Yuan di origine mongola, i cinque colori iniziarono a simboleggiare le etnie (五色四夷) in uno Stato multietnico.
Nei periodi storici successivi, questa «bandiera dei cinque elementi uniti» fu modificata e riadattata per usi militari e ufficiali. Un dipinto della dinastia Qing, raffigurante la vittoria delle Otto Bandiere contro il musulmano Du Wenxiu nello Yunnan, include una bandiera militare della Qing con i cinque elementi disposti nell'ordine giallo, bianco, nero, verde e rosso.
Dopo la rivolta di Wuchang, il regime della dinastia Qing fu sostituito dalla Repubblica di Cina. Prima dell'adozione della bandiera a cinque colori da parte della Repubblica, una serie di bandiere diverse furono promosse dai rivoluzionari. Ad esempio, le unità militari di Wuchang volevano una bandiera a 9 stelle con il simbolo del Taijitu,[2] mentre Sun Yat-sen preferiva la bandiera del Cielo Blu e Sole Bianco per onorare Lu Haodong.[2]
Nonostante le rivolte avessero come obiettivo un regime dominato dai Manciù, Sun Yat-sen, Song Jiaoren e Huang Xing sostennero unanimemente l'integrazione razziale, simboleggiata dalla bandiera a cinque colori.[3] Hanno promosso una visione delle etnie non Han come se fossero anch'esse cinesi, nonostante siano una percentuale relativamente piccola della popolazione.[4]
La «bandiera delle cinque razze sotto un'unica unione» non fu più utilizzata dopo la fine della Spedizione del Nord nel 1928.
Una variante di questa bandiera fu adottata dall'Impero di Cina e dallo Stato fantoccio giapponese del Manciukuò. Nel Manciukuò si usava uno slogan simile (五族協和), ma le cinque razze che rappresentava erano il popolo Yamato (rosso), i cinesi Han (blu), i mongoli (bianco), i coreani (nero) e i manciù (giallo). Alcune delle sue varianti hanno anche messo in risalto il giallo, invece di mostrare ogni colore in modo uguale.
Durante la Seconda guerra sino-giapponese, la bandiera fu utilizzata da diversi governi fantoccio giapponesi, tra cui il Governo provvisorio della Repubblica di Cina nella parte settentrionale del Paese e il Governo riformato della Repubblica di Cina nella Cina centrale.
Note
[modifica | modifica wikitesto]- ^ Murray A. Rubinstein (1994). The Other Taiwan: 1945 to the present, M.E. Sharpe, ISBN 1-56324-193-5, p. 416; James A. Millward (2007). Eurasian crossroads: a history of Xinjiang, Columbia University Press, ISBN 0-231-13924-1, pag. 208; Paul Hibbert Clyde, Burton F. Beers (1971). The Far East: a history of the Western impact and the Eastern response (1830–1970), Prentice-Hall, p. 409.
- ^ a b c Fitzgerald, John. [1998] (1998). Awakening China: Politics, Culture, and Class in the Nationalist Revolution. Stanford University Press publishing. ISBN 0-8047-3337-6, ISBN 978-0-8047-3337-3 p. 180.
- ^ Hsiao-ting Lin. [2010] (2010). Modern China's ethnic frontiers: a journey to the west. Taylor & Francis publishing. ISBN 0-415-58264-4, ISBN 978-0-415-58264-3. p. 7.
- ^ Chow, Peter C. Y. [2008] (2008). The "one China" dilemma. Macmillan publishing. ISBN 1-4039-8394-1, ISBN 978-1-4039-8394-7. p. 31.